18 giugno 1867. Il giovane deputato Salvatore Morelli presenta in Parlamento una proposta di legge destinata a segnare la storia del Paese. Quarantatré anni, pugliese, è arrivato alla Camera solo da qualche settimana. È stato eletto a marzo nel collegio di Sessa Aurunca. Il documento chiede di «abolire la schiavitù domestica», riconoscendo alle donne tutti i diritti già previsti per i cittadini maschi. Tra cui, ovviamente, il diritto di voto. È un’iniziativa rivoluzionaria, per molti inconcepibile. E come tale viene trattata: in Parlamento non viene nemmeno presa in considerazione. Invece di demordere, Morelli ne fa una battaglia personale. Nel giro di pochi anni presenta una serie di provvedimenti a tutela dei diritti femminili. Si batte per introdurre il divorzio e il principio della parità tra coniugi. Promuove più volte il suffragio universale, chiede di abolire i regolamenti sulla prostituzione. Tutte leggi che non vedranno mai la luce. Anzi, come si legge nei documenti conservati nell’archivio storico della Camera dei deputati, non saranno neppure ammesse alla lettura.
Morelli è un pioniere dei diritti civili, oggi colpevolmente sconosciuto. Probabilmente è un visionario. Una sorta di Marco Pannella ottocentesco. Un parlamentare in grado anticipare di decenni il corso della storia (la proposta di legge sul divorzio precede di un secolo il referendum del 1974). Il deputato ha una vita travagliata. Patriota mazziniano, prima di essere eletto alla Camera è stato a lungo rinchiuso nelle prigioni borboniche. Ha girato le carceri di Ischia, Ponza e Ventotene, condannato a otto anni di reclusione per aver bruciato nella piazza centrale di Carovigno, il paese dove è nato, un ritratto del Re delle Due Sicilie Ferdinando II. È un personaggio fuori dalle righe. L’impegno a favore dei diritti delle donne gli vale non di rado l’ironia degli stessi colleghi parlamentari. «Deriso e incompreso – lo ha ricordato qualche giorno fa la presidente della Camera Laura Boldrini – veniva dipinto dalla satira dell’epoca con ritratti offensivi, oppure vestito da donna. Dai resoconti delle sedute parlamentari, il dileggio di Morelli è evidente. Che parlasse del diritto delle donne a testimoniare negli atti pubblici, del diritto al voto o addirittura del diritto al divorzio, viene spessissimo interrotto dagli schiamazzi e le risate dei colleghi. Nei resoconti dell’epoca si legge: “ilarità”, “viva ilarità”, “si ride”, eccetera eccetera».
«Deriso e incompreso – ricorda la presidente della Camera Laura Boldrini – veniva dipinto dalla satira dell’epoca con ritratti offensivi, oppure vestito da donna. Dai resoconti delle sedute parlamentari, il dileggio di Morelli è evidente»
A raccontare la sua storia, insieme a tante altre, è la mostra della Camera dei deputati: “1946. L’anno della svolta”. Un viaggio che partendo dall’Unità d’Italia arriva, quasi un secolo dopo, alla conquista del suffragio universale. L’esposizione è allestita in un luogo ricco di significato, la Sala della Lupa di Montecitorio. Tra queste mura, settant’anni fa, venne proclamato il risultato del referendum istituzionale. Di fatto, qui è nata la Repubblica italiana. Il percorso delle donne italiane verso il pieno riconoscimento dei propri diritti è raccontato con gli atti parlamentari dell’epoca, documenti d’archivio e immagini fotografiche. Non mancano le sorprese. Come la lettera che Giuseppe Mazzini invia a Morelli. Il deputato si è lamentato perché la sua proposta di legge per l’abolizione della schiavitù domestica non è stata presa in considerazione dalla Camera. Mazzini lo rincuora: «L’emancipazione della Donna – scrive – sancirebbe una grande verità religiosa, base a tutte le altre (…) Ma sperar di ottenerla alla Camera così com’è costituita, e sotto il dominio dell’Istituzione che regge l’Italia è, ad un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato d’ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù. Noi non l’avremo che dalla Repubblica». Aveva ragione.
Tra le teche spiccano le petizioni originali inviate alla Camera nel 1867 e nel 1868, a firma di sole donne, per chiedere l’estensione del suffragio universale nelle elezioni amministrative. Sono documenti incredibili. Le firmatarie vengono dal Veneto e dalla Lombardia. Sotto il dominio straniero già potevano vedere riconosciuta qualche forma di rappresentanza, ora negata dal Regno d’Italia. Richiamandosi allo Statuto Albertino, secondo cui “tutti godono egualmente i diritti civili e politici”, denunciano il «troppo retrogrado passo rispetto all’antica legge Comunale 4 aprile 1816, che ci lasciava quel diritto di essere rappresentate, ed è veramente doloroso il dovere oggi, dopo che il nostro Paese ha ricuperata la sua libertà, evocare noi la liberalità della Legislazione Austriaca!». Sono le nostre suffragette. Come Anna Maria Mozzoni, su cui la mostra si sofferma. «Anche la sua è una figura poco ricordata – così Laura Boldrini durante l’inaugurazione dell’esposizione – Autodidatta, giornalista e attivista è una delle donne più importanti del panorama politico italiano e internazionale tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900». Sarà lei, dieci anni dopo la proposta di legge di Salvatore Morelli, a presentare in Parlamento la prima petizione per chiedere il voto politico femminile.
Ma i tempi, evidentemente, non sono ancora maturi. Nel 1882 la riforma della legge elettorale allarga la platea degli elettori agli uomini che sanno leggere e scrivere. ll limite di età si riduce da 25 a 21 anni. L’elettorato passa dal 2 al 7 per cento della popolazione. Le donne, però, sono escluse ancora una volta dalla sfera pubblica. È curioso rileggere, oggi, gli interventi in Parlamento durante la discussione del disegno di legge di riforma presentato dal ministro dell’Interno Agostino Depretis. È Giuseppe Zanardelli, il relatore, a chiedere di escludere dal voto le donne italiane. «La donna è diversa dall’uomo – si legge nel resoconto – essa non è chiamata agli stessi uffici, non è chiamata alla vita pubblica militante, il suo posto è la famiglia, la sua vita è domestica, le sue caratteristiche sono gli affetti del cuore che non si convengono coi doveri della vita civile.(…) la forza della donna non è nei comizi, ma nell’impero del cuore e del sentimento sul freddo calcolo e sulla ragione crudele». È l’ennesima occasione mancata. Per arrivare a riconoscere il diritto di voto a tutte le donne, quello che Depretis chiama il “suffragio universalissimo”, dovranno passare più di sessant’anni.