Il mese di giugno rappresenta un crocevia fondamentale per il futuro dell’Unione Europea. Oltre alla sentenza della Corte costituzionale tedesca sulla legittimità delle Outright Monetary Transactions della Bce e alle elezioni politiche spagnole, il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE – cd Brexit – rischia infatti di influenzare pesantemente il dibattito sul futuro dell’integrazione. L’eventuale uscita del Regno Unito potrebbe portare altri paesi dell’Ue a seguirne l’esempio nella speranza di superare il momento economico stagnante e deflattivo; se l’uscita dovesse comportare un adeguamento economico non eccessivamente traumatico potrebbe innescarsi un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili.
Le ragioni alla base della consultazione referendaria sono molteplici, ma si deve innanzitutto constatare la portata storica della questione: l’euroscetticismo non è un fenomeno nuovo nel paese, ma piuttosto una caratteristica intrinseca della scena politica inglese. Per comprenderne le radici sarebbe necessario approfondire i pilastri della politica europea della Gran Bretagna e la strategia internazionale degli Stati Uniti a partire dal secondo dopoguerra: per ragioni di spazio, qui basterà accennare alla special relationship con Washington e all’atteggiamento ambivalente dei britannici in diverse fasi dell’integrazione europea.
Quanto alle vicende più recenti, le difficoltà europee a individuare soluzioni adeguate ai diversi aspetti della crisi – debiti pubblici, sofferenze bancarie, flussi migratori – hanno restituito nuova linfa alle forze euroscettiche, in particolare a quelle nazionaliste: i contribuenti inglesi temono che il Governo possa essere coinvolto nel salvataggio delle finanze pubbliche periferiche – quelle dei cd Piigs – o degli istituti di credito europei; il principio di libera circolazione è messo inoltre in discussione perché provocherebbe competizione salariale al ribasso e riduzione delle opportunità lavorative per i cittadini britannici, non a caso la questione migratoria sta risultando cruciale nella campagna referendaria. A prescindere da queste argomentazioni, si deve sottolineare che l’eurofobia latente del paese è stata costantemente alimentata anche prima dello scoppio della crisi: l’Ukip di Nigel Farage è stato fondato nei primi anni ’90 in risposta alla firma del Trattato di Maastricht, proprio con lo scopo di far uscire il paese dall’Ue; non meno importante l’orientamento euroscettico di alcuni media inglesi, in particolare quelli riconducibili a Rupert Murdoch.
L’eventuale uscita del Regno Unito potrebbe portare altri paesi dell’Ue a seguirne l’esempio nella speranza di superare il momento economico stagnante e deflattivo; se l’uscita dovesse comportare un adeguamento economico non eccessivamente traumatico potrebbe innescarsi un effetto domino dalle conseguenze imprevedibili
In questo contesto, David Cameron è riuscito nel Febbraio 2016 a strappare un nuovo accordo, che ha rafforzato lo status speciale del Regno Unito nell’Ue, consentendo al premier di lanciare la propria campagna a favore della permanenza da una posizione di forza. Tra le condizioni favorevoli ottenute si è fatto spesso riferimento all’esclusione dalla clausola Ue di una “Unione sempre più stretta”, alla sospensione emergenziale dei benefici sociali per i cittadini Ue che lavorano nel paese per i primi quattro anni – misura valida fino al 2023 – e all’indicizzazione dei child benefit alle condizioni di vita dello Stato di residenza del minore (anche retroattiva a partire dal 2020).
In ogni caso, al di là dei tagli al welfare e della questione migratoria, la priorità del governo britannico durante i negoziati è sempre stata – per stessa ammissione del Chancellor of the Exchequer George Osborne – la tutela degli speciali interessi finanziari della City. Londra teme di perdere la posizione dominante acquisita sui servizi finanziari europei; in particolare, dopo l’introduzione dell’Unione Bancaria, gli inglesi vogliono evitare che la nuova regolamentazione si traduca in una minaccia rispetto agli ingenti introiti legati alla funzione d’intermediazione internazionale svolta dal paese e in una fuga di capitali verso il Continente. Grazie al nuovo accordo con l’Ue, Cameron è riuscito a garantire al proprio paese il diritto di interferire sui progetti di legge dell’Eurozona, pur non facendone parte: anche gli Stati europei al di fuori della moneta unica potranno d’ora in poi influenzarne il processo decisionale, dimostrando con una opposizione ragionata i potenziali danni associati ai provvedimenti in discussione (European Council conclusions, Section C, 3).
Non stupisce dunque che le grandi banche d’investimento britanniche abbiano finanziato la campagna “Stronger in” a favore della permanenza nell’Ue, soprattutto se si considera che un eventuale vittoria del Brexit andrebbe ad annullare i privilegi acquisiti grazie all’accordo; peraltro diverse capitali – Parigi e Francoforte in testa – guardano con interesse all’esito referendario che potrebbe garantirgli l’opportunità per sostituire la City come epicentro finanziario europeo. Infine, nella complessità della finanziarizzazione contemporanea, si deve tenere conto che anche la campagna “Vote Leave” è riuscita a legarsi al mondo degli affari, garantendosi l’appoggio delle piccole e medie imprese britanniche e di diversi hedge fund.
Il dibattito referendario ha visto il consolidarsi di due formazioni quantomeno inusuali rispetto al normale confronto politico: a favore della permanenza si sono infatti schierati sia il premier conservatore David Cameron che il partito laburista di Jeremy Corbyn; la campagna degli inners è stata dunque segnata da argomentazioni molto differenziate, con il Labour a sostenere che solo la cooperazione a livello europeo potrà garantire risultati significativi nell’ambito della difesa dei diritti dei lavoratori, del cambiamento climatico e della giustizia sociale, purché si riesca a ribaltare il quadro politico all’interno delle istituzioni europee (una linea politica vicina a quella di Yanis Varoufakis e del movimento DiEM25, che si sono spesi politicamente in favore della permanenza).
Dal lato degli outers troviamo naturalmente gli indipendentisti dell’Ukip guidati da Nigel Farage e soprattutto una parte consistente del Partito Conservatore, capeggiata dall’ex sindaco di Londra Boris Johnson, che ha sfruttato la campagna referendaria per aprire la sua corsa verso la leadership dei Tories, inneggiando alla necessità di recuperare sovranità rispetto alle istituzioni tecnocratiche di Bruxelles; a favore si è infine schierata parte della sinistra radicale, sostenendo che la difesa dei gruppi sociali più deboli è impossibile nel contesto europeo, irrimediabilmente orientato verso la difesa degli interessi delle multinazionali e delle classi dominanti.
In definitiva, i paradossi non mancano: il Labour è schierato dalla stessa parte dei grandi interessi finanziari della City e ha ceduto alcune delle sue battaglie storiche – la sovranità e la devolution – a certa parte del Partito Conservatore, che a sua volta lotta per la rottura con l’Ue. A tal riguardo, si dovrebbe peraltro ricordare che le scelte politiche più impattanti sulla vita quotidiana dei cittadini britannici – diritto alla casa, sanità, istruzione, politiche sociali – sono tuttora competenza di Londra, che non subisce quanto i paesi dell’Eurozona i diktat di Bruxelles; attribuirne le conseguenze all’Ue costituisce una comoda scappatoia per certa classe politica britannica. Inoltre, sulla questione dell’autodeterminazione gli outers non hanno risolto il dilemma di un eventuale referendum per l’indipendenza scozzese che potrebbe essere nuovamente richiesto da Glasgow – notoriamente più europeista di Londra – in caso di Brexit.
La prima fase della campagna referendaria si è incentrata sul dibattito economico. L’obiettivo degli inners era quello di instillare nell’elettorato la percezione di un pericolo imminente – Project Fear – e si sono perciò moltiplicate le previsioni economiche disastrose: il Brexit – si è sostenuto – mette a rischio i diritti dei lavoratori, le pensioni e il ruolo nevralgico della City; comporta una forte svalutazione della sterlina, ma anche una diminuzione degli scambi commerciali (via chiusura del mercato unico); provoca una riduzione del Pil e del reddito annuale delle famiglie. Senza entrare nel merito delle diverse affermazioni, è interessante notare che le principali istituzioni economiche del paese – impegnate a favore della permanenza – raggruppano gli stessi economisti cui la Regina rimproverò di non aver previsto lo scoppio della crisi finanziaria; in sostanza, queste previsioni sono credibili quanto le assunzioni su cui poggiano e hanno una valenza scientifica molto relativa (per un approfondimento si veda qui). In ogni caso, gli outers sono riusciti nell’impresa di risultare ancora meno convincenti, tant’è che in ambito economico si è assistito a una chiara affermazione dello schieramento favorevole alla permanenza; al di là degli effetti di lungo periodo, poco prevedibili, nell’immediato l’uscita provocherebbe quasi certamente notevoli costi per il paese.
A partire dall’ultima settimana di maggio, gli outers hanno dunque impresso una svolta deliberata alla propria campagna: l’obiettivo di riduzione del flusso migratorio netto a 100.000 unità fissato da David Cameron è stato duramente criticato da Johnson e Goove in quanto irrealistico e corrosivo della fiducia pubblica verso le istituzioni, in particolare dopo la pubblicazione del dato relativo al 2015, che ha visto un aumento a 330.000 unità. Questa seconda fase della campagna ha segnato un ulteriore peggioramento della qualità della discussione: gli outers hanno deciso di puntare tutto sulla questione migratoria invece che sul tema della sovranità e della democrazia, dando ampio spazio alle argomentazioni demagogiche e xenofobe più vicine all’Ukip che ai tories (per un’introduzione più pragmatica alle problematiche migratorie da un punto di vista economico); a dire il vero, anche l’atteggiamento di Cameron e la gestione europea dei flussi hanno fortemente contribuito a creare le condizioni favorevoli a tale deriva. In ogni caso, questo shift ha garantito agli outers un chiaro rimbalzo nei sondaggi: al netto delle considerazioni sulla capacità predittiva degli stessi, è significativo che da inizio iugno i favorevoli all’uscita abbiano prima uguagliato e poi superato di misura i favorevoli alla permanenza; sembra peraltro che la maggior parte degli intervistati indichi proprio nel tema migratorio quello cruciale al fine di prendere una posizione in merito al referendum.
In conclusione, l’interpretazione più significativa della dinamica referendaria potrebbe essere quella che associa al Brexit il voto di protesta in chiave anti-establishment o anti-sistema, il quale potrà determinarsi anche a partire da istanze di partenza molto differenti e che si ricollega senza dubbio alla sfiducia verso le istituzioni, ormai dilagante su scala europea. All’interno di questa prospettiva generale, si devono poi certamente considerare le fratture a livello geografico, generazionale ed economico che dividono i due schieramenti: l’Inghilterra risulta più critica di Scozia e Galles rispetto a Bruxelles, così come gli elettori più anziani sembrano maggiormente orientati a sostenere l’uscita rispetto ai giovani (un’eredità dell’orgoglio imperiale?); infine, i bassi redditi e i disoccupati sono fortemente orientati per il Brexit, mentre le più alte fasce di reddito per la permanenza. In definitiva, pare proprio che sarà una lotta all’ultimo voto.