«Ma quale hobby! Fare una startup è come fare un master. E sarà il nostro futuro»

Parla Luigi Capello di LVenture Group, alla vigilia dell'aumento di capitale: «Meno spocchia verso l’economia digitale. Solo così l’Italia può ripartire»

«Sono stato a parlare di startup in un convegno di industriali tradizionali. L‘idea che leggevo loro negli occhi è che stessi parlando di cose lontane migliaia di chilometri. Quando invece stavo parlando di cose che stavano succedendo anche a pochi metri da loro, in Italia». A parlare è Luigi Capello di amministratore delegato di LVenture Group, a pochi giorni dall’aumento di capitale di cinque milioni di euro, che partirà il prossimo 20 giugno. E in fondo è tutto qua il problema: per lui che è uno dei pochi capitalisti di ventura italiani. E per l’economia italiana, nel suo complesso: «Parliamo tanto dell’industria manifatturiera tradizionale – osserva – nonostante un economista autorevole come Enrico Moretti, autore de “La nuova geografia del lavoro” e consigliere del presidente americano Barack Obama abbia ripetuto anche pochi giorni fa a Trento che non sarà lì che tornerà a crescere l’occupazione».

Le startup, allora. Che all’estero sono il motore dell’economia – Facebook ha acquisito Instagram pagandola più di quanto Audi abbia pagato Ducati, qualche anno fa -, mentre da noi sono ancora viste come un hobby per ragazzini annoiati o disoccupati cronici all’ultima spiaggia: «Sono luoghi comuni antipatici ed è altrettanto antipatico sprecare del tempo a smontarli – sbuffa Capello -. Certo, la disoccupazione è un problema: Thomas Friedman, solo pochi giorni fa, ha scritto sul New York Times che scomparirà il 47% delle professioni che conosciamo oggi, sostituite dalla tecnologia. Questo vuol dire che investire tempo, denaro e competenze sulla tecnologia è fondamentale per non rimanere dalla parte sbagliata della Storia».

Ancora più antipatico è il secondo pregiudizio: «Ragazzini annoiati, li chiamano, quando va bene – riflette ancora Capello -, quando va male sono gente che coltiva un hobby, non viene riconosciuto loro nemmeno lo status di lavoratori. Eppure, per un giovane, fare una startup è come fare un master. Si deve occupare di tutto: dello sviluppo dell’idea, dell’organizzazione produttiva, dei flussi finanziari, della comunicazione. Mentre i coetanei col posto fisso, spesso, si ritrovano a dover fare fotocopie e presentazioni in power point per anni».

Il tema, insomma, è tutto culturale. E non risparmia le imprese, grandi e piccole. Soprattutto, la loro incapacità di cogliere il potenziale di acceleratori d’impresa come Luiss Enlabs – al primo piano della stazione Termini, ora nei nuovi locali, è uno dei più grandi d’Europa: «Le imprese italiane nemmeno lo sanno, che esistiamo – spiega Capello – qui vengono a fare open innovation realtà come Google e Cisco, che lanciano call alle nostre startup per sviluppare progetti innovativi che interessano loro. Magari lo facessero le nostre imprese, che magari non hanno un sito internet, non sanno che farsene dei big data, o cosa siano la realtà aumentata e la prototipazione rapida».

«Parliamo tutti di turismo, ma Air Bnb l’hanno fatta gli americani e Bla Bla Car i francesi. Parliamo di moda, ma Zalando è una startup tedesca. Chissà dove saremmo se avessimo meno spocchia e meno paura della tecnologia…»


Luigi Capello, LVenture

Non tutto è nero, per fortuna. Non il futuro. Nè per LVenture Group, né per le startup, né (forse) per l’Italia: «Noi in questa fase abbiamo seminato, con l’obiettivo di raccogliere venti milioni di euro attraverso aumenti di capitale successivi, da investire nelle migliori startup italiane. Per ora ne abbiamo investiti otto, sui cento complessivi investiti in Italia. Con questo e col prossimo aumento di capitale contiamo di arrivare a quindici, venti milioni. Poi, le prime startup che abbiamo accelerato cominceranno ad avere tre anni e fare la loro exit. E con i soldi delle exit finanzieremo lo sviluppo di nuove startup e metteremo in moto un processo che si alimenterà da solo. Quando accadrà si ricrederanno un po’ tutti, sull’incapacità delle startup di generare valore».

Non si tratta di una guerra tra imprenditori di nuova e vecchia generazione, però. Perché le startup potrebbero essere davvero il motore in grado di far ripartire il made in Italy tradizionalmente inteso: «Parliamo tutti di turismo, ma Air Bnb l’hanno fatta gli americani e Bla Bla Car i francesi. Parliamo di moda, ma Zalando è una startup tedesca – osserva Capello -. Chissà dove saremmo se avessimo meno spocchia e meno paura della tecnologia…»

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