Per chi crede che quella dell’Islanda sia stata la più grande impresa di una piccola nazionale di calcio contro i grandi maestri inglesi, dovrà ricredersi. Perché c’è una storia che affonda le proprie radici nel primo Mondiale ai quali l’Inghilterra partecipò. Una storia nella quale si intrecciano le vicende di figli di immigrati, studenti universitari, macellai, impiegati in pompe funebri e ragazzi che troveranno la morte in un carcere di Haiti.
Ed è da Haiti che cominciamo a raccontare il tutto. Quello che Auschwitz è stato per gli ebrei, Fort Dimanche è stato per gli haitiani. Se tu o la tua famiglia eravate state sostenitori dei nemici di François Duvalier, le solerti guardie dei Tonton Macoutes si facevano scrupolo di venirti a prendere anche sul luogo di lavoro, per portarti in quello molto rapidamente è diventato un luogo di morte. Ecco, la morte: a un certo punto arrivavi ad augurartela. Perché durante la prigionia venivi torturato in ogni modo. Con i cavi elettrici, ad esempio. Oppure ti mutilavano. Non c’è modo di resistere: o muori, o la tua psiche è devastata per sempre: a quel punto vieni liberato e usato dal governo come prova di come vieni ridotto, se discuti la parola di Duvalier, che nel frattempo il 7 luglio si era nel frattempo si è autoproclamato presidente eterno.
Lo sa bene anche Joe Gaetjens, che la sera successiva viene prelevato in cella e portato davanti alla guardia che lo aspetta: da quel momento di lui non si saprà più nulla. La famiglia di Joe aveva supportato Louis Dejoiè, rivale di Duvalier. Joe era rientrato ad Haiti nel 1953 dove aveva fatto prima il calciatore e poi l’imprenditore. Joe con un gol aveva umiliato i maestri inglesi ai Mondiali di calcio del 1950.
All’epoca il fatto venne subito ribattezzato come “Il miracolo di Belo Horizonte”. Eppure, la squadra nazionale di soccer degli Usa aveva colto il terzo posto alla prima Coppa del Mondo della storia, nel 1930 in Uruguay: ci avevano pensato gli argentini a fermarli a un passo dalla finale con un secco 6-1. Gli inglesi inveve non c’erano. Certo, il viaggio per andare a giocare a football dall’altra parte del mondo era lungo e costoso. E soprattutto, l’Inghilterra non faceva parte della Fifa, la federcalcio mondiale che sotto la guida di Jules Rimet aveva voluto fortemente un torneo mondiale che designasse la più forte di tutte. Agli inglesi questo non piaceva.
Spesso si è detto e scritto che i maestri, che si consideravano inventori del gioco e codificatori delle regole principali del gioco del calcio, non vollero mischiarsi agli allievi. In fondo gli inglesi sono sempre stati accusati di snobismo e la spiegazione tende a mettere d’accordo un po’ tutti. Ma come spesso accade, era soprattutto una questione di prestigio e soldi. La nazionale di calcio del Regno Unito – che gioca appunto unito ai Giochi Olimpici – si era messa al collo tre ori nel 1900, 1908 e 1912, per poi sfidarsi divisa tra Ingilterra, Scozia, Galles e Irlanda nell’esclusivo Torneo Interbritannico: organizzare un Mondiale avrebbe significato svilire quei due tornei, oltre a “deprezzare” il valore delle amichevoli che la Football Association concedeva ad altre nazionali (lo spiega bene Giovanni Armillotta su Limes). Nel 1925, poi, proprio Jules Rimet era riuscito a far approvare alla Fifa i cosidetti Broken time payments, cioè la possibilità per i calciatori all’epoca ancora dilettanti convocati dalle nazionali di ricevere pagamenti sottoforma di rimborsi, per il tempo sottratto al proprio lavoro. Un orrore, per gli inglesi, che già avevano dovuto affrontare lo scisma nel mondo del rugby per via dello stesso motivo.
Spesso si è detto e scritto che i maestri, che si consideravano inventori del gioco e codificatori delle regole principali del gioco del calcio, non vollero mischiarsi agli allievi. In fondo gli inglesi sono sempre stati accusati di snobismo e la spiegazione tende a mettere d’accordo un po’ tutti. Ma come spesso accade, era soprattutto una questione di prestigio e soldi.
Negli Usa il soccer è cosa per lo più da immigrati o studenti universitari. Già ai Mondiali del 1930 e ’34, la nazionale era composta da giocatori per lo più nati fuori dai confini nordamericani: per la spedizione del ’50 c’erano i figli degli emigrati e i ragazzi che si dividevano tra libri e pallone. Joe Gaetjiens era arrivato da Haiti negli anni Quaranta, grazie ad una borsa di studio del governo di Port Au Prince. Il suo obiettivo era quallo di studiare ragioneria e si iscrisse ai corsi della Colombia University. E mentre studiava, si pagava la vita a New York lavando i piatti. Ma il ragazzo aveva il fiuto del gol. E pochi metri vicino alla Columbia, i Brooklyn Dodgers stavano rompendo le barriere del razzismo nello sport, con Jackie Robinson. Così Joe finì per giocare a soccer nel Brookhattan, nella American Soccer League: nel 1949-50, Joe vinse la classifica cannonieri, che da quelle parti chiamavano “top-scorer”. Gli bastava mezza occasione per segnare, raccontano.
Con lui c’erano altri ragazzi immigrati che facevano i lavori più disparati: il portiere figlio di immigrati italiani Frank Borghi ad esempio si divideva tra il soccer e la direzione di un’agenzia di pompe funebri. Gli piaceva il baseball, i piedi non erano fatti per il calcio. Poi un giorno provò in porta e mise a frutto l’esperienza maturata nel baseball: coprire bene gli angoli. Davanti a lui, giocava Harry Keough, che quando non difendeva in campo faceva il postino. Accanto a lui Walter Bahr, di professione insegnante.
https://www.youtube.com/embed/gRcTDRoQ3j8/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-ITCi misero due giorni, per arrivare in Brasile in aereo, con tanto di tappa intermedia per mettere il carburante: sempre meglio dell’Italia, che arrivò sulle sponde brasiliane in nave, dopo la tragedia aerea di Superga che aveva falciato la nazionale del Grande Torino. Gli inglesi si presentarono con una sfilza di nomi che facevano impressione: gente destinata a fare la storia come Stanley Matthews (futuro primo Pallone d’Oro) e Alf Ramsey (futuro ct della nazionale inglesi campione del mondo nel 1966). Per loro era dunque la prima partecipazione in Coppa del mondo dopo la riammissione nella Fifa del 1946 e l’occasione per fare bella figura e stabilire subito le giuste gerarchie era ghiotta, ghiottissima: c’erano l’Italia e l’Uruguay, uniche nazionali in grado fino a quel momento di vincere il Mondiale. E c’era il Brasile, convintissimo di vincere e addobbato a festa per l’occasione, tanto da inaugurare il mastodontico stadio Maracanà.
Nell’imoianto dove un intero Paese piangerà umiliato dagli uruguaiani, l’Inghilterra esordisce contro il Cile: vittoria tranquilla 2-0 per i maestri. Nel frattempo, a Curitiba, gli Usa perdono contro la Spagna per 3-1. In quella partita, però, ci sono dei segnali importanti. Uno su tutti, il fatto che i giocatori di soccer fossero passati in vantaggio, resistendo per buona parte della gara e capitolando negli ultimi 10 minuti. A segnare il gol per gli Usa era stato Gino Pariani, impiegato in un’industria di barattoli metallici e figlio di emigrati lombardi di Cuggiono che si erano stabiliti a St. Louis: fu lì che Gino conobbe Frank Borghi e Charlie Colombo, macellaio e futuro difensore centrale di quella nazionale. I tre erano legati da grande amicizia: Gino giocherà a calcio anche in una squadra sponsorizzata dalla Calcaterra Funeral Home, l’agenzia funebre di Frank.
Per la stampa statunitense c’è allo stadio un solo gionalista, Dent McSkimming del St. Louis Post-Dispatch, presente dopo essersi preso un periodo di ferie ed essersi pagato la trasferta.
Il 29 giugno del 1950 si gioca a Belo Horizonte. L’Inghilterra, certa della qualificazione, tiene in panchina Matthews. Il Belfast Telegraph definisce gli Usa “Band of No-Hopers”. Per la stampa statunitense c’è allo stadio un solo gionalista, Dent McSkimming del St. Louis Post-Dispatch, presente dopo essersi preso un periodo di ferie ed essersi pagato la trasferta. Siede in mezzo al pubblico che tifa per gli Usa: passando, l’Inghilterra avrebbe pescato nel secondo girone il Brasile. Un tifo che esplode al minuto 37 del primo tempo, dopo alcune occasioni inglesi: succede quando un tiro di Bahr viene deviato di testa da Gaetjens. “Il nostro gol venne probabilmente sgenato per mantenere il punteggio rispettabile. Sapevamo che loro erano allenati meglio. Non credo che nessuno di noi avesse speranza di vincere”, spiegherà Bahr alla BBC nel 2010, in occasione di Inghilterra-Usa ai Mondiali di calcio del 2010. Bahr, classe 1927, è ancora vivo. Borghi, che fermò sulla linea un tiro ravvicinato di Mullen a pochi minuti dalla fine, è morto lo scorso anno.
Walter Bahr (ussoccerplayers.com)
La partita finì 1-0. La leggenda, non sempre confermata, vuole che i giornali inglesi non credettero ai dispacci arrivati dal Brasile e non pubblicarono la notizia, o lo fecero aggiungendo un 1 allo 0, credendo che i maestri avessero vinto in realtà 10-1 e che ci fosse quindi un errore. nessun errore, invece, nella seconda sconfitta inglese al Maracanà 1-0 contro la spagbna, che sancì l’eliminazione degli inglesi dal loro primo Mondiale. Per l’Inghilterra arriverà poi un’altra umiliazione: il 3-6 subìito qualche anno dopo a Wembley, dove non avevano mai perso, contro l’Ungheria di Puskas.
Anche gli Usa usciranno dal Mondiale. Nel 1976 la federcalcio statunitense inserì quella formazione nella propria hall of fame. Nel 2005, la storia di Frank Borghi e di quella nazionale fu d’ispirazione al film The game of their lives, con Gerard Butler nel ruolo del portiere italo-americano. L’Inghilterra, che quel giorno giocò con una casacca blu, non indosserà più interamente quel colore.