Da qualche settimana, davanti all’ex sede dell’Inpdap (Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica) di Roma, staziona un gazebo verde. Lì dentro, durante il giorno, ventrite fra occupanti e attivisti si sottopongono a turno a dei controlli medici. Stanno portando avanti uno sciopero della fame per denunciare l’emergenza abitativa che affligge le città italiane e in particolare la capitale. Alle loro spalle, dei fili con appese delle chiavi, stanno a simboleggiare il sostegno della cittadinanza. Nel 2014, un provvedimento regionale firmato dalla giunta Zingaretti aveva cercato di mettere mano alla questione. Il piano abitativo prevedeva un finanziamento complessivo di 200 milioni di euro per garantire una casa a tutti i richiedenti in graduatoria, a chi è ospitato nei residence comunali e a chi si trova in un occupazione abitativa. In particolare, a quest’ultima categoria la Regione aveva stabilito una quota del 30% di abitazioni popolari da assegnare. A rientrare tra i fortunati erano anche gli abitanti di Santa Croce in Gerusalemme a meno di un chilometro dalla Basilica di San Giovanni in Laterano.
Un progetto che valeva un sospiro di sollievo per gli abitanti dell’edificio. Occupata dall’associazione Action (una delle protagoniste dello Tsounami tour abitativo) nel 2013, la palazzina di Santa Croce ospita 180 famiglie. Le stesse che ora sono a rischio sgombero. Sì, perché nella delibera comunale firmata dal commissario Tronca con cui si recepisce la direttiva regionale, qualcosa è cambiato. Non solo sotto la scure è passata la quota di abitazione destinate agli occupanti – dimezzata al 15% – ma è stata stilata una lista di 16 edifici da sgomberare nel 2016 e altri 76 entro l’anno seguente. Una batosta per gli occupanti. La maggior parte già passata attraverso altri sfratti. Costretta prima ad appoggiarsi a qualcuno, poi ad arragiarsi come può, sempre in lista e in attesa, infine ad occupare in modo abusivo, perché è l’unico modo – economicamente sostenibile – con cui si permettono di avere un tetto sopra la testa. Un affitto da privati è troppo alto, come dimostra il 90% di sfratti dovuti a morosità incolpevole (l’incapacità di pagare l’affitto a seguito della perdita di una fonte di reddito famigliare). Dati che rilanciano la necessità di un piano abitativo e urbanistico a livello nazionale: «Ci vuole un nuovo miracolo economico. Ma non può che partire dalla casa. La casa è un’emergenza. L’economia è in emergenza. Mettiamole insieme e con intelligenza facciamo ripartire il Paese». Parola dell’architetto Francesco Maria Esposito.
«Ci vuole un nuovo miracolo economico. Ma non può che partire dalla casa. La casa è un’emergenza. L’economia è in emergenza. Mettiamole insieme e con intelligenza facciamo ripartire il Paese»
Da sempre impegnato professionalmente nella progettazione pubblica, Esposito ha condotto diversi studi in Italia e all’estero sul problema dell’equità e della giustizia distributiva. In particolare, si è occupato del problema casa attraverso un approccio etico alla gestione dei beni comuni. Uno di questi, è il suolo. Nel suo ultimo libro Edificabilità bene comune, Esposito avanza una proposta forte: «La mia tesi è che i suoli siano considerati semicommons. Ossia, il terreno è di proprietà pubblica o privata, mentre l’edificabilità è un bene comune, come l’acqua». Una posizione che non è nuova nel panorama italiano. Già nel 1962, l’allora ministro dei Lavori pubblici, Fiorentino Sullo, si era battuto per far approvare la legge sull’edilizia economico-popolare. Si trattava del primo serio tentativo di fare i conti con i problemi legati alla rendita e alla speculazione fondiaria durante gli anni del boom. La riforma Sullo si fondava su due elementi: da un lato si concedeva agli enti locali il diritto di esproprio preventivo di tutte le aree fabbricabili incluse nei piani regolatori. Agli stessi comuni sarebbe stato affidato anche il compito di realizzare le opere di urbanizzazione (strade, acqua, elettricità e fogne) al fine di rivendere ai privati i terreni così attrezzati a un prezzo più alto, ma controllato. Dall’altro lato, si introduceva il principio del diritto di superficie: i nuovi proprietari sarebbero entrati in possesso solo di quanto veniva costruito ma non del terreno che sarebbe rimasto ai comuni.
Da qui parte anche la proposta di Esposito, che sarà presentata al Festival dell’Economia di Trento. «Il mio Piano abitativo nazionale riguarda la costruzione, in dieci anni, di 480.000 case ed è concepito in project financing per un totale di 120 miliardi di euro, senza intervento dello Stato. Insomma, a costo zero – afferma Esposito – Inoltre, genererebbe circa 400.000 posti di lavoro nel settore edile, spingerebbe la crescita, porterebbe la disoccupazione sotto il 7% e farebbe salire il Pil». Un’intervento, quello sull’edilizia pubblica, che garantirebbe l’avvio di un circolo virtuoso senza dover passare dagli espropri. «Basterà – precisa Esposito – cooptare tutti i terreni edificabili e stabilire i prezzi di vendita e i canoni di locazione di tutte le nuove costruzioni. In questo modo anche i costruttori si adegueranno a operare in un mercato convenzionato. Ovvero, all’interno di un nuovo regime dei suoli, liberi di costruire e vendere dove la pianificazione lo prevede ma non liberi di speculare».
Perché la vera sfida è quella di ridurre l’incidenza dei prezzi di locazione abitativa sul reddito degli italiani che ora pesano per il 65% della busta paga. Un taglio che gioverebbe a quel 70% di connazzionali per cui la casa è la prima voce di spesa e che potrebbe dare una nuova prospettiva ai giovani. Secondo una recente ricerca Ixè, il 25% degli italiani fra i 18 e i 34 anni culla ancora il sogno di comprare casa nonostante la quota di coetani costretti a vivere coi genitori per questioni economiche si avvicini al 50%. Una sfida in cui, secondo Esposito, c’è in gioco l’articolo 41 della nostra costituzione sulla “libera iniziativa economica”: «La speculazione immobiliare reca danno alla sicurezza economica e sociale. Reca danno alla libertà, perché speculando si nega al cittadino la sua libertà al diritto allo sviluppo, che è la libertà delle libertà, e ovviamente si reca danno alla dignità umana. Perché senza tetto, senza la possibilità di potere provvedere ad uno sviluppo dignitoso della famiglia, con un reddito in equilibrio con il costo casa, viene meno il senso dello stare insieme». Soprattutto nelle grandi città.
«A Roma, Milano e Firenze si pagano affitti che sono il triplo di quelli di Berlino», rivela Esposito. In Germania, le politiche di social housing coinvolgono fra il 25 e il 35% delle casa abitate. Un tratto comune a tutti i Paesi del Nord Europa, che destinano al social housing una quota di molto superiore all’Italia, ferma al 4%. «La casa è il grande bilanciere del ciclo economico – conclude Esposito – Il capitalismo, però, si è arenato nell’incapacità dei governi di gestire il settore immobiliare. Risolvere il problema casa allora, significa risolvere il problema del liberismo, dargli un ordine che eviti disuguaglianze tali da impedire una ripresa del il Pil. La crescita e la stabilità sono correlate perché non può esserci crescita sostenibile senza stabilità».