Le notizie che arrivano dalla Turchia sembrano raccontare un’inarrestabile caduta nel baratro. Da ultimo, è stato dichiarato lo stato di emergenza in tutto il Paese (che in base alla Costituzione diminuisce di gran lunga i diritti e le libertà dei cittadini) ed è stata sospesa la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per i prossimi tre mesi. Il tutto mentre decine di migliaia di persone vengono arrestate, licenziate o sospese per il sospetto di essere vicini a Fethullah Gulen (l’imam miliardario ex sodale di Erdogan e ora suo avversario, accusato di aver pianificato il fallito golpe di metà luglio). E le dichiarazioni nei confronti degli alleati occidentali hanno toni incendiari. L’Europa viene invitata bruscamente a non interferire nelle questioni turche (di qui, anche, la sospensione della Cedu) e gli Usa vengono addirittura accusati – apertamente da alcuni ministri – di essere coinvolti nel golpe.
Ma dietro questa animosità di facciata delle dichiarazioni già si avverte un sottofondo più rassicurante su quelli che sono (e dovranno essere) i rapporti tra l’Occidente, in particolare gli Usa, e la Turchia. James Stavridis, ammiraglio americano ed ex comandante supremo della Nato, che in tempi recenti è stato valutato come possibile vice-presidente di Hillary Clinton, su Foreign Policy ha sostenuto che gli Usa devono fare quattro cose ora nei confronti della Turchia: «Primo, dobbiamo stare fermamente dalla parte del governo legittimo turco. Secondo, dobbiamo inviare i nostri ufficiali di altro grado ad Ankara per ascoltare le loro controparti turche e per congratularci con la leadership turca nell’aver fatto la cosa giusta ed aver fermato il golpe. In aggiunta, anche le nostre autorità civili devono visitare e rassicurare il governo Erdogan del nostro supporto. Terzo, sarebbe una mossa furba per gli Usa incrementare la cooperazione di intelligence e l’aiuto ai turchi contro gruppi terroristi curdi. Quarto, gli Usa dovrebbero usare la Nato come meccanismo per supportare la posizione turca». Non esattamente una ritorsione per le accuse mosse dalla Turchia agli Usa.
Non solo. Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, ha già chiarito che «è importante per tutti noi che la Turchia continui a essere un forte alleato nella Nato, perché la Turchia è sulla faglia di tutte le instabilità, di tutte le violenze che abbiamo visto in Siria e in Iraq» (glissando sul ruolo della Turchia in quelle violenze). Il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha invitato poi Ankara «a far durare lo stato di emergenza solo il tempo necessario», di fatto avallando la misura decisa da Erdogan.
Insomma, l’Occidente non sembra assolutamente intenzionato a scaricare (né a sanzionare) la Turchia a causa della preoccupante involuzione democratica all’interno dei suoi confini. Forse perché, è qualcosa più di un sospetto, al di fuori di tali confini Erdogan sembra aver deciso una linea molto più prudente e accomodante che in passato (tendenza che il fallito golpe, secondo diversi esperti, dovrebbe solo accentuare).
L’Occidente non sembra assolutamente intenzionato a scaricare (né a sanzionare) la Turchia a causa della preoccupante involuzione democratica all’interno dei suoi confini. Forse perché al di fuori di tali confini Erdogan sembra aver deciso una linea molto più prudente e accomodante che in passato
Prima del tentato colpo di Stato, Erdogan aveva già messo in fila una serie di azioni rassicuranti. In primis, aveva ricucito i rapporti con Israele, con cui quasi dieci anni fa aveva avuto il primo grave scarto rispetto alla linea occidentale (a proposito dell’incidente della Freedom Flottilla diretta a Gaza). Con Israele la Turchia condivide interessi economici rilevanti nel settore energetico e ora anche interessi tattici geopolitici. Poi, pare abbia maturato un atteggiamento – anche grazie all’avvicendamento sulla poltrona di primo ministro tra Ahmet Davutoğlu, più interventista e teorico del neo-ottomanesimo, e Binali Yildirim, uomo ciecamente fedele a Erdogan – più cauto sulla Siria, tanto cauto che negli scorsi giorni Yildrim è stato costretto a smentire una ricucitura dei rapporti con Bashar al Assad. Terzo elemento, pare che – complici i gravi attentati subiti, su tutti quello all’aeroporto di Istanbul – Ankara stia ora prendendo un atteggiamento più ostile nei confronti dello Stato Islamico. Questo è molto importante, considerato il numero di basisti e cellule dormienti che si stima abbiano trovato riparo negli ultimi anni in Anatolia, e la presenza della strategica base Nato di Incirlik nel sud della Turchia. Infine Erdogan si è anche riavvicinato alla Russia, scusandosi per il caccia bombardiere russo abbattuto in Siria. Questa mossa, secondo fonti europee, si può spiegare su un duplice livello: in primo luogo Erdogan non vuole restare fregato da eventuali accordi tra Usa e Russia sulla ripartizione delle rispettive aree strategiche in Medio Oriente (pare la trattativa sia in corso, e sicuramente Washington e Mosca sono in coordinamento costante sulla Siria), in secondo luogo – anche in prospettiva di una simile trattativa – è meglio anche per gli Usa se la Turchia non viene vista come fumo negli occhi al Cremlino, ma anzi come un possibile interlocutore.
Questo patto del diavolo – scambiamo la qualità di una democrazia in cambio della stabilità geopolitica – potrebbe essere la scelta che causa le conseguenze meno drammatiche (per noi). E da parte della Nato pare si voglia andare in quella direzione. Più complesso il discorso relativo alla Ue. L’accordo sui profughi richiede che, perché la Turchia veda i visti per i suoi cittadini liberalizzati e il negoziato per la sua adesione sbloccato, vengano rispettate 72 condizioni (che riguardano anche diritti e libertà civili in Turchia). Se ciò era improbabile prima del golpe – in particolare la revisione della legge sul terrorismo che ha portato in manette giornalisti e intellettuali è da subito stata esclusa da Erdogan -, ora sembra impossibile. Ma non c’entra solo l’accordo sui profughi.
Le opinioni pubbliche europee sono marcatamente ostili a Erdogan e alla sua Turchia in versione islamista e non accetterebbero un negoziato per l’adesione di Ankara alla Ue in ogni caso. Sembra quindi quasi inevitabile un naufragio di quell’intesa, con il rischio che la rotta balcanica torni a gonfiarsi di centinaia di migliaia di profughi in fuga dalla guerra (magari stavolta incentivati dalle autorità turche a dirigersi verso l’Europa). Alle leadership europee toccherà quindi valutare se ai propri popoli risulterà più indigesto l’arrivo di nuovi migranti, o il sacrificio dei valori su cui l’Unione europea stessa è stata fondata.
Alle leadership europee toccherà valutare se ai propri popoli risulterà più indigesto l’arrivo di nuovi migranti, o il sacrificio dei valori su cui l’Unione europea stessa è stata fondata