Se il golpe fallito e la rabbiosa vendetta che ne è conseguita hanno sicuramente rafforzato Erdogan in patria, con altrettanta certezza si può dire che hanno indebolito la Turchia e la Nato. Come sottolineato da Stratfor – società di analisi geopolitica e di intelligence – “questo golpe non sarebbe potuto giungere in un momento peggiore per Ankara. Fuori dai suoi confini, in Iraq e in Siria, stanno continuamente peggiorando le situazioni critiche, mentre la Turchia è trascinata sempre più in profondità nello scontro con lo Stato Islamico. Al suo interno è in guerra contro i curdi del Pkk. Ora, a causa del golpe, ci saranno pesanti purghe all’interno delle forze armate e questo renderà quasi impossibile usare l’esercito come strumento di politica e strategia nazionale. La Turchia potrebbe restare azzoppata per molto tempo dalle conseguenze di questo golpe”. Quello che era – e sulla carta è ancora – il secondo esercito della Nato si trova quindi ora in stato confusionale, indebolito, privato di alcuni dei suoi uomini migliori e col morale a terra. Il tutto mentre è chiamato a combattere contro i curdi in patria, contro i curdi all’estero e contro l’Isis. “Alla Turchia servirebbero anni per rimettere in sesto le forze armate”, conclude l’analisi di Stratfor, “ma questi anni – considerata la crescente instabilità regionale – non li ha”.
Anche la Nato paga le conseguenze del fallito colpo di stato. Non solo per le disastrate condizioni dell’esercito turco, ma anche perché Erdogan sta esasperando le frizioni con gli Stati Uniti, del resto già ai massimi storici. Dall’inizio delle Primavere Arabe il presidente turco ha infatti seguito un’agenda di politica estera indipendente da quella degli Alleati. Negli ultimi tre anni addirittura è andato in rotta di collisione coi suoi partner occidentali, sostenendo il jihadismo siriano – pare anche nelle sue componenti più estreme – pur di abbattere Assad e cercando in tutti i modi di impedire ai curdi siriani del Ypg (dalla Turchia considerati terroristi legati al Pkk) di conquistare i propri territori liberandoli dall’Isis, mentre d’altro canto l’America tentava (timidamente) di contenere la minaccia dello Stato Islamico e si affidava proprio al Ypg come forza di fanteria contro gli uomini del Califfo. Adesso la nuova escalation.
«Temo si vada quindi verso uno scollamento sempre più accentuato, dove la Turchia porterà avanti la propria linea in contrasto con quella occidentale»
«Dopo il mancato golpe Erdogan e uomini del suo governo stanno attaccando durissimamente gli Stati Uniti, indicandoli tra i responsabili», racconta Claudio Neri, direttore dell’Istituto italiano di studi strategici. «Questa potrebbe essere solo una mossa turca per aumentare la pressione su Washington per ottenere l’estradizione di Gulen (il politico e religioso ex alleato di Erdogan, ora suo arcinemico che vive in esilio volontario negli Usa ndr.), ritenuto da Erdogan mandante del colpo di Stato, o anche un modo per avere in futuro le mani ancora più libere nella politica regionale rispetto all’America. Di sicuro, rispetto al passato, gli Usa non sono più un modello positivo che il governo turco voglia indicare al proprio popolo, anzi il contrario. Temo si vada quindi verso uno scollamento sempre più accentuato – pur escludendo categoricamente una fuoriuscita di Ankara dall’Alleanza -, dove la Turchia porterà avanti la propria linea in contrasto con quella occidentale».
Una Nato divisa è una Nato debole, e in un momento storico in cui la Russia – grazie al suo intervento in Siria – è in forte ascesa nello scacchiere Mediorientale la lontananza tra Washington e Ankara è un danno strategico rilevante. Anche per questo, almeno finora, l’Occidente è stato più disposto ad assecondare la Turchia di quanto la Turchia non sia stata disposta ad assecondare l’Occidente, tanto da tollerare un atteggiamento ambiguo (fino a poco fa almeno) nella guerra contro l’Isis. Ma ora che le relazioni bilaterali Usa-Turchia sono a un nuovo minimo storico la musica potrebbe cambiare, con buona pace della coesione in ambito Nato. «La situazione credo rimarrà invariata fino alle elezioni americane», dice ancora Neri. «Poi si vedrà se gli Usa, magari proprio sulla questione curda e siriana, saranno più inclini a scontentare l’alleato turco, del resto sempre più impresentabile dopo le continue involuzioni democratiche impresse da Erdogan. Dipenderà ovviamente anche dall’accordo che troveranno con Mosca (sono in trattativa da mesi) sulla spartizione delle aree di influenza strategica in Medio oriente. Per quanto riguarda l’Europa, poi, temo che non ci si possa aspettare nessun cambio di passo. Continueremo ad andare a traino degli Stati Uniti».
La Francia, che ha storicamente affossato l’idea di un esercito europeo fin dagli anni ’50, pare ora una delle più accese sostenitrici, complice lo stillicidio di attentati subiti. Italia e Germania sono da sempre favorevoli, e con il Trattato di Lisbona è anche già presente un meccanismo di cooperazione rafforzata in ambito di politica estera e di sicurezza che consente a un nocciolo duro di Stati membri che lo desiderino di mettersi insieme. Alle parole seguiranno i fatti?
Questo è un altro tema che si sta surriscaldando dopo il golpe turco e, soprattutto, dopo la strage di Nizza. L’Europa è la parte di Occidente che più paga le conseguenze dell’esistenza stessa dello Stato Islamico, in termini di immigrazione di massa, di instabilità geopolitica e ovviamente di terrorismo. Eliminare dalla mappa lo Stato Islamico è necessario per comprometterne le capacità organizzative e, soprattutto, l’immagine vincente che attrae jihadisti e anche persone con disturbi mentali (come pare nei casi di Nizza e di Orlando). Finora gli Stati Uniti hanno esitato nello sferrare un colpo letale all’Isis, un po’ perché Obama ha preferito evitare altre guerre in Medio Oriente dopo la disastrosa esperienza di Bush, un po’ perché per interesse non hanno voluto scontentare i propri alleati (Turchia e Arabia Saudita) favorendo l’asse sciita (principale nemico dell’Isis) già galvanizzato e arricchito dall’accordo sul nucleare con l’Iran. L’Europa dunque, orfana della leadership americana, pur essendo la più danneggiata dall’esistenza dell’Isis ha dato pessima prova di sé, risultando di fatto assente all’appello o quasi. La speranza, che si fonda su alcune voci che iniziano a circolare nelle istituzioni europee e non solo, è che la necessità – in un momento caratterizzato da instabilità geopolitica e terrorismo – spinga gli Stati europei (non necessariamente tutti, anche solo un nocciolo duro) a far emergere un’Unione europea più forte anche militarmente e coesa in termini di politica estera.
La spinta parte dalle istituzioni comunitarie, in particolare dal presidente della Commissione Juncker, secondo cui negli ultimi anni “l’Europa ha sofferto drammaticamente anche in termini di politica estera, non sembra che siamo presi completamente sul serio. Una forza armata europea aiuterebbe a disegnare una politica estera e di sicurezza comune e permetterebbe all’Europa di assumersi le sue responsabilità nel mondo”. Ma se gli sforzi di Bruxelles non sono una novità – e purtroppo la lista dei fallimenti e dei tentativi abortiti è lunga – un discorso diverso merita il quadro politico degli Stati. L’Inghilterra, storica oppositrice dell’esercito comune, è prossima a uscire dalla Ue. La Francia, che ha storicamente affossato l’idea di un esercito europeo fin dagli anni ’50, pare ora una delle più accese sostenitrici, complice lo stillicidio di attentati subiti (il presidente del Ppe, il francese Joseph Daul, ha auspicato dopo Nizza una Ue con “reali capacità militari”). Italia e Germania sono da sempre favorevoli, e con il Trattato di Lisbona è anche già presente un meccanismo di cooperazione rafforzata in ambito di politica estera e di sicurezza che consente a un nocciolo duro di Stati membri che lo desiderino di mettersi insieme. Alle parole seguiranno i fatti? Un primo banco di prova sarà la proposta della Commissione sulla cooperazione nell’industria della difesa, un settore dove hanno sempre prevalso le gelosie nazionali. Di sicuro l’Europa affronta un momento storico, da cui se non uscirà più unita rischia di uscire a pezzi.