«Non riteniamo che un approccio punitivo sia il migliore in questa fase dell’economia europea». Così il Commissario Europeo Pierre Moscovici ha motivato la decisione di sanzionare Spagna e Portogallo per l’eccessivo deficit. Anche se Spagna e Portogallo «non hanno raggiunto gli obiettivi di bilancio del 2015», ha aggiunto, i due paesi hanno comunque «fatto grandi sforzi e approvato riforme strutturali importanti». Uno sconto niente male: le regole europee avrebbero infatti previsto di imporre ai due paesi multe pari allo 0,2% del Pil. Uno sconto che stride con l’immagine della matrigna austera che l’Europa si è costruita in molti anni. E che si è disfatta come neve al sole in poche settimane.
Stretto tra crisi economica ed emergenze politiche continue, il Vecchio Continente si trova sempre più spesso davanti a eventi difficili da gestire: la crisi greca, il terrorismo, il fallito golpe in Turchia, solo per citarne alcuni. Tra equlibri delicati da rispettare, Bruxelles cerca in questi giorni di recuperare la fiducia dei cittadini attraverso un cambiamento di atteggiamento. Il messaggio inviato dal voto britannico è stato ben recepito dalle autorità comunitarie, che in queste settimane hanno provato a cambiare strategia di comunicazione verso l’opinione pubblica. La crisi turca, però, potrebbe mettere a repentaglio le buone intenzioni dei dirigenti europei.
Abbandonati i toni di comandanti dell’esercito scesi in trincea, in questi giorni i responsabili delle istituzioni Ue sono attenti a non compiere errori. Nella capitale belga ha vinto, per ora, la linea di pensiero di Angela Merkel. Nei confronti di Londra si deve mostrare fermezza, ma evitare di cadere in forme di rappresaglia. «I britannici non devono essere trattati come disertori» ha dichiarato il Presidente del Parlamento Ue Martin Schulz in un’intervista al Guardian.
A pochi giorni dal referendum, l’Assemblea europea votava a larghissima maggioranza la risoluzione con la quale chiedeva l’immediato avvio dei negoziati per l’uscita di Londra dall’Unione. Poche ore dopo l’esito del referendum dagli scranni dell’Europarlamento il Presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker dichiarava minaccioso: «Fuori significa fuori. Londra deve uscire subito». A supportarlo anche lo stesso Schulz e il Presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. Nel giro di qualche giorno, però, il tono è cambiato. Perché? Perché Bruxelles teme di perdere un’altra partita con i suoi cittadini e non può permetterselo. Con la Brexit diventata realtà, non ci sono retoriche che tengono. E dalle relazioni con Londra alle sanzioni contro Portogallo e Spagna, passando per le quote dei rifugiati da ricollocare tra i vari Stati membri, a Bruxelles in questi giorni vige la linea morbida.
A Bruxelles nessuno vuole aprire un altro terreno di scontro anche nella Penisola Iberica. E così la procedura per deficit eccessivo contro Portogallo e Spagna – aperta dall’esecutivo Juncker e approvata dai Ministri delle finanze Ue – potrebbe risolversi con l’introduzione di zero sanzioni
«Le regole sono regole». Nella capitale belga si sente spesso ripetere questa frase. E dietro il rispetto delle regole e la loro applicazione da manuale si sono spesso nascosti i criticati burocrati degli anni della crisi finanziaria. Oggi le regole restano le stesse, ma nell’applicarle si fa attenzione a non creare nuove divisioni e malumori. È il caso della procedura per deficit eccessivo contro Portogallo e Spagna. Aperta dall’esecutivo Juncker e approvata dai Ministri delle finanze Ue si è risolta con l’introduzione di zero sanzioni. Lisbona e Madrid, entrambe uscite di recente da programmi di salvataggio, hanno dimostrato scarsa risolutezza nell’evitare che il deficit superasse il 3% del Pil. Giusto farlo notare, quindi. A Bruxelles, però, nessuno ha voluto aprire un altro terreno di scontro anche nella Penisola Iberica.
La Commissione guidata da Jean Claude Juncker, la prima ad aver ufficialmente dichiarato di voler essere un esecutivo politico e non solo tecnico, sembra al momento tenere in alta considerazione il termometro dell’opinione pubblica. L’ultimo sondaggio realizzato da Eurobarometro per l’Europarlamento mostra una generale tendenza a favore dell’Ue, tre cittadini su quattro hanno dichiarato di sentirsi europei. Nonostante questo le critiche e i malumori restano altissimi: l’88% degli intervistati, infatti, vorrebbe che Bruxelles facesse di più su lotta al terrorismo e alla disoccupazione, mentre per l’85% l’Ue non fa abbastanza nella gestione della politica migratoria.
Proprio sull’immigrazione si è registrato un altro cambiamento di toni da parte della Commissione Ue. L’agenda per le migrazioni presentata oltre un anno fa è stata scarsamente implementata da parte degli Stati membri. A languire è soprattutto la parte relativa alla ridistribuzione dei rifugiati arrivati nel 2015 in Italia e Grecia. Questo nonostante l’approvazione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio UE (e quindi degli stessi Stati membri) in autunno. I cattivi della classe sono in questo caso gli Stati del Gruppo Visegrad, dove forte è la retorica anti-Commissione. Polonia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca stanno facendo pochissimo in termini di accoglienza dei rifugiati. Dopo aver sigillato i propri confini, come l’Ungheria, in queste capitali si sta procedendo alla politica della zero accoglienza che il Governo di Viktor Orban spera di veder suggellata dal referendum del 2 ottobre dedicato proprio alle quote “imposte” da Bruxelles. Dopo l’iniziale idea di sanzionare gli Stati riluttanti ad accogliere i rifugiati e a mostrarsi solidali con le altre capitali Ue, la Commissione Ue ha deciso di cambiare strategia. Al posto delle multe arrivano gli incentivi. Diecimila euro per rifugiato accolto (poco di più di quanto era già stato approvato in autunno). La Commissione spera così di provare a invertire la narrativa che la vorrebbe sempre nei panni del poliziotto cattivo.
È necessario sconfiggere l’immagine di un esecutivo tecnico, non eletto e legato ai poteri forti. La Commissione guidata da Juncker lo sa bene. L’unica possibilità è provare a cambiare completamente lo stile della comunicazione e dell’approccio nelle decisioni prese
Da sconfiggere c’è, però, anche l’immagine di un esecutivo tecnico, non eletto e legato ai poteri forti. La Commissione guidata da Juncker lo sa bene. L’ex Premier lussemburghese, chiamato in causa dallo scandalo Luxleaks, parte sfavorito. L’incarico in Goldman Sachs dato all’ex Presidente dell’esecutivo Ue Barroso peggiora il quadro. Cosa fare? Insistere sui tecnicismi e provare a spiegare che seppur non eletto direttamente l’esecutivo comunitario è emanazione della democrazia rappresentativa – considerato che i suoi membri vengono scelti dai governi nazionali – non sembra aver dato grande successo. L’unica possibilità è provare a cambiare completamente lo stile della comunicazione e dell’approccio nelle decisioni prese.
È in questa linea di pensiero che deve collocarsi la decisione annunciata una settimana fa dalla Commissaria al Commercio Internazionale Cecilia Malmstrom di includere i Parlamenti nazionali nel processo di ratifica del Trattato per l’area di Libero scambio con il Canada (CETA). Il diffondersi delle critiche e dei sospetti nei confronti dell’esecutivo Ue accusato di voler fare gli interessi delle lobby e agire a discapito dei cittadini ha spinto Bruxelles a un’inversione di rotta. Decisione che influenzerà anche i negoziati e il possibile processo di ratifica dell’altro Trattato di Libero scambio con gli Usa, il TTIP. Con la Brexit ormai realtà, l’Est sul piede di guerra e le elezioni nei due Paesi simbolo del processo di unificazione alle porte (Francia e Germania) Bruxelles sembra aver capito che anche se “le regole sono regole” esistono pur sempre eccezioni e sfumature.