Non arretra di un passo Matteo Renzi. La fase politica che si apre è complicata e il premier decide di giocarla all’attacco. Combattivo, punta tutto sul referendum costituzionale di ottobre. È l’appuntamento chiave da cui dipendono i destini del governo e, probabilmente, della legislatura. Due settimane dopo la sconfitta delle amministrative, Renzi ostenta sicurezza. In un lungo intervento alla Direzione del Partito democratico assicura che non si farà logorare dagli avversari né dal dissenso interno. «Io non tremo – lancia la sfida – ci metto la faccia».
L’attenzione è tutta all’autunno, ovviamente. Lo snodo cruciale resta il referendum sulle riforme del governo. Su questo Renzi è categorico. Sarebbe strano il contrario: sulla riforma costituzionale ha scommesso tutto. È la grande sfida della legislatura. Ecco perché se gli italiani dovessero bocciare il progetto, come annunciato più volte, l’inquilino di Palazzo Chigi è pronto a trarne le conseguenze. Ma non sarebbe il solo. Senza minacciare nessuno, Renzi fa capire che se alle urne di ottobre vincerà il “No”, anche il Parlamento potrebbe subirne le conseguenze. Si può essere più o meno d’accordo con il premier, ma di una cosa bisogna dargli atto. Sulle partite in corso, ci mette la faccia. E nella politica italiana non è una cosa da poco. Ai suoi il presidente del Consiglio chiede chiarezza. Il messaggio lanciato al partito è fin troppo evidente: in vista del voto si deve marciare tutti nella stessa direzione. I distinguo non sono previsti. Per dirla con il vicepresidente Lorenzo Guerini, su questo argomento il Pd non può essere «neutrale». È la posizione che Renzi sostiene da mesi. Il voto in Direzione sul documento presentato dagli esponenti della minoranza Roberto Speranza e Gianni Cuperlo è significativo. L’ordine del giorno in cui si chiede che anche le posizioni contrarie alla riforma possano essere rappresentante nel partito, viene messo ai voti e bocciato. Si schierano a favore solo in otto.
Sulla riforma costituzionale il presidente del Consiglio ha scommesso tutto. È la grande sfida della legislatura. Ecco perché se gli italiani dovessero bocciare il progetto, come annunciato più volte, l’inquilino di Palazzo Chigi è pronto a trarne le conseguenze. Ma non sarebbe il solo
Renzi non si nasconde. Non è più tempo di trovare giustificazioni. E così anche l’analisi delle ultime amministrative è schietta. Senza girare troppo attorno alle parole, ammette la vittoria dei Cinque Stelle. La conquista di Roma e Torino ha un significato innegabile, non riconoscerla sarebbe nascondere la realtà. Tutto il contrario della strategia adottata dal premier. Eppure non ci sta a parlare di tracollo. «Abbiamo perso qualche città, a volte succede» . Dopotutto era accaduto anche nel 2014, all’indomani della clamorosa vittoria alle Europee. Talvolta le amministrative fanno storia a sé. Ecco perché cercare di dare «una lettura nazionale» al voto sarebbe sbagliato e pretestuoso. Così almeno è convinto Renzi.
La schiettezza chiesta al partito impone un confronto anche duro con la minoranza. I toni inevitabilmente si alzano. Durante la Direzione non è difficile riconoscere una plastica rappresentazione delle divisioni: Pierluigi Bersani seduto in fondo alla sala, il silenzio di Massimo D’Alema, lo scontro con Gianni Cuperlo. Anche stavolta Renzi non si nasconde: non ci sta a finire in un angolo. Non ha alcuna intenzione di finire logorato dai suoi avversari interni, come è successo ai suoi predecessori Prodi e Veltroni. «La strategia del Conte Ugolino non funziona. La stagione in cui qualcuno, dall’alto della sua intelligenza, si divertiva ad abbattere i leader è finita». L’ultima volta Renzi aveva chiesto ai suoi una moratoria sugli scontri interni. Una parentesi per preparare prima la partita elettorale, e poi il referendum. Stavolta invece lancia apertamente la sfida. «Credo che ci sia bisogno di grande chiarezza: se volete che io lasci non avete che da affrontarmi al congresso. E possibilmente vincerlo».
Renzi è convinto che in Parlamento non ci siano i numeri per cambiare l’Italicum. Ma per il momento, almeno su questo punto, preferisce non esprimersi. Per qualcuno è la dimostrazione evidente che la trattativa si è già aperta
Botta e risposta, i toni diplomatici sono un lontano ricordo. Il rischio che lo scontro esploda proprio nei mesi che precedono il referendum costituzionale è sempre più concreto. «Senza una svolta condurrai la sinistra italiana a una sconfitta storica» lo accusa Cuperlo. Il premier risponde colpo su colpo. Tra gli argomenti di scontro con la minoranza ce n’è uno che nell’ultima fase politica si è fatto più pressante. Quello del doppio ruolo. Renzi può essere capo del governo e segretario del Pd? È l’ennesimo nodo giunto al pettine del difficile confronto interno. «L’esperimento è fallito» insiste Cuperlo, portavoce del dissenso. Ecco perché al prossimo congresso la minoranza sosterrà un ticket articolato attorno a due ruoli ben definiti. Qualche giorno fa Renzi aveva derubricato il tema a “dibattito lunare”, sollevando le critiche di qualcuno. Adesso sfida gli avversari, ancora una volta. «Se volete che si scinda il ruolo di premier e di segretario, proponete una modifica dello statuto». Scontro franco, alla luce del sole. Renzi non risparmia neanche i suoi fedelissimi. Attacca il partito delle correnti. Sul referendum si è messo in gioco in prima persona, figurarsi se qualcun altro può considerare garantito il proprio posto. Il premier parla ai renziani della prima e dell’ultima ora. «In Transatlantico si dice che in tanti stanno scendendo dal carro. Quando torneranno lo troveranno occupato». È anche un modo per replicare a malumori e retroscena che da settimane riempiono le pagine dei giornali. Un attacco a chi immagina manovre di Palazzo per archiviare questo governo.
Una sfida alla volta, si decide il futuro del governo. Dopo il referendum si arriva all’Italicum. Il presidente del Consiglio, che ha sempre negato la possibilità di rimettere mano alla legge elettorale, stavolta tace. Anche perché nel partito la novità è evidente: a chiedere modifiche alla legge non è più solo la minoranza. Il tema resta quello del premio di maggioranza, da assegnare alla coalizione anziché al primo partito. Un modo per dare vita a nuove alleanze di centrosinistra. Ma anche per mettersi al riparo dai Cinque Stelle, in crescita nei sondaggi ed evidentemente avvantaggiati dall’attuale sistema di voto. Lo chiedono Bersani e Cuperlo. Ma adesso anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e Cesare Damiano. Il tema resta aperto. Renzi è certo che in Parlamento non ci siano i numeri per cambiare la legge. Ma per il momento, almeno su questo punto, preferisce non esprimersi. Per qualcuno è la dimostrazione evidente che la trattativa si è già aperta.