Big Data, chi sa fare le domande giuste oggi vale oro

La chiave per trovare le migliori e più accurate risposte alle nostre domande fra le infinite possibilità a cui siamo esposti con i big data è filtrare ed interpretare le informazioni con la nostra mente

L’idea di questo post è frutto di tre eventi che si sono susseguiti in rapida sequenza e con incredibile coerenza. Non so se tre indizi facciano una prova, ma sicuramente questi tre eventi hanno “fatto” questo articolo.

Nell’ultima settimana di luglio 2016, nel mio laboratorio di digital fabrication ho incontrato nella stessa giornata il fisico nucleare Dario Menasce (vice presidente del National Committe for Scientific Computing) e l’economista Luciano Canova, esperto di economia comportamentale, anche lui autore di Centodieci. Siamo finiti a parlare di big data: so che è stato scritto e sarà scritto tanto su questo tema, ma voglio provare a dare una visione diversa, che parta proprio da stimoli che persone come Dario e Luciano, professionisti dei dati (rispettivamente in fisica e in economia), ma che provi ad andare oltre una visione disciplinare, provando a legare insieme tutti questi numeri e ritrovando anche le origini di questa scienza, per tornare a quando la scienza dei grandi dati era ancora piccola.

La sfida dei big data non è nell’accumulo, ma nell’interpretazione

La cosa su cui concordano tutti, economisti, businessman e scienziati è che quando si parla di big data non si deve puntare solo l’attenzione sulla enormità del numero di dati in gioco ma soprattutto sul saperli interpretare. Questo è quello che sostiene l’economia attraverso le parole di Luciano Canova che nel suo libro Pop Economy (Hoepli) afferma: «È vero che però questa lettura del fenomeno big data è molto parziale, perché a caratterizzare la vera e propria rivoluzione non è tanto il numero di osservazioni disponibili (ovvero non solo) ma la struttura del dato».

Lo stesso fisico Dario Menasce, esperto di calcolo scientifico nella fisica delle particelle per Fermilab e Cern mi ha confermato che «il tema dei big data non è solo questione di quantità di dati ma piuttosto della capacità di saper estrarre significato e senso da quella mole di numeri».

Ancora una volta, mi sembra di capire, che è l’uomo (e la sua mente) al centro di questa rivoluzione: i sensori, i motori di ricerca, i gps e qualunque diavoleria raccolga dati è secondaria all’attività che l’uomo farà su e con quei dati. Per questo servono nuovi professionisti e per questo serve una cultura scientifica per avvicinarsi a questo mondo che da solo non salverà aziende o governi.

Affidatevi a persone che sanno, non solo raccogliere dati ma estrarne il senso per i vostri bisogni

Voglio semplificare la questione per essere ancora più chiaro, anche a rischio di essere banale e poco scientifico, ma credo sia giusto spiegare a chi si sta avvicinando a questo tema di cosa si tratti davvero. Lo farò con un esempio che non c’entra nulla con i big data: come sappiamo, sul web ormai esiste pressoché lo scibile umano: tra blog, siti, portali e versioni di libri antichi digitalizzati oggi è possibile trovare risposta a qualunque domanda.

Il problema è quanto sofisticata è la risposta che vogliamo trovare in mezzo a una mole enorme e variegata di informazioni. Se ci possiamo accontentare del dato riportato su Wikipedia o su il primo sito elencato da Google, buon per noi, ma se la ricerca che stiamo facendo è più complessa e profonda, ecco che la frase (la domanda) o la sequenza di parole che dobbiamo inserire nel motore di ricerca risulta fondamentale. Nel mondo del web, saper trovare la sequenza di parole giuste da inserire nella barra di Google è l’analogo, per il mondo dei big data, di sapere costruire gli strumenti di analisi adeguati per analizzare i numeri che sensori, smartphone, personal computer producono e rendono disponibili.

La risposta è nel web, ma è la domanda che la porta a galla.
La risposta è nei big data, ma è il modello che la porta a galla.

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