Contro l’estate del terrore i consigli di Ildegarda, la monaca che esaltava la “verdezza”

A dirci come fare per esorcizzare i fantasmi dei tagliagole, l’ansia per le città militarizzate, il dolore per le vittime della crudeltà terrorista, è una monaca del XII secolo

Dove prenotare per l’estate 2016? Tanti, tantissimi, vanno a documentarsi su Google, leggono delle dieci città dove viaggiare sicuri e dei dieci capoluoghi più a rischio. Poi, accanto, trovano il ministro di turno che allarga, metaforicamente e non, le braccia e dichiara: siamo tutti bersagli. Tutti nel mirino del folle emulatore, dello jihadista, del fanatico, dell’adepto Isis, del terrorista fai-da-te. E come partire? Aereo? Treno? In macchina? Il viaggio, itinerario di conoscenza e di evasione del “pellegrino” contemporaneo, è stato destrutturato dall’estate del terrore. Il motto di George Saunders “il mondo è grande, e mi piace un sacco” va trasformato in “il mondo è pericoloso, e non sono certo che mi piaccia un sacco”.

Eppure, anche stando fermi, anche rinunciando alla nervosa mobilità che appare come cifra esistenziale irrinunciabile, si può apprezzare il mondo, goderne, lasciarsene sorprendere, fruire della sua meraviglia. E non si tratta di un concetto astratto, anzi. A dirci come fare, per esorcizzare i fantasmi dei tagliagole, l’ansia per le città militarizzate, il dolore per le vittime della crudeltà terrorista, è una monaca del XII secolo, fatta santa da Benedetto XVI nel 2012, personaggio diventato di moda proprio per le sue “ricette” antidepressive di cui i moderni hanno tanto bisogno, Ildegarda di Bingen. Benché reclusa a soli sei anni, questa figlia di nobili nata in Renania, o grazie alle sue virtù di mistica o a causa delle sue doti razionali, acquisì presto un prestigio tale che neanche papi e imperatori osavano contraddirla. La sua prima regola di vita era appunto godere di ciò che il creato ci offre, scacciare la tristezza, vincere l’accidia, leggendo su ogni singola foglia le parole di conforto che Dio vi ha scritto.

La sua prima regola di vita era appunto godere di ciò che il creato ci offre, scacciare la tristezza, vincere l’accidia, leggendo su ogni singola foglia le parole di conforto che Dio vi ha scritto

Già, perché per Ildegarda il verde è colore terapeutico, anzi non è solo un colore, è espressione della “viriditas”, dell’anima mundi, collegata al soffio vitale che tutto tiene in vita, al giallo del sole e al rosso dell’aurora. Questi i concetti base della cromoterapia della badessa Ildegarda:
“O verdezza nobilissima, che hai radici nel sole/ e in candida serenità riluci/ nella ruota/ che nessuna altezza terrena contiene/ tu sei circondata dall’amplesso dei divini misteri/ risplendi come la rossa aurora / e ardi come la fiamma del sole”.
Fu lei, quindi, a scoprire che il verde era il colore della medicina (non sono forse verdi le croci delle farmacie?), della salute – come sottolineato dallo storico dei colori in Occidente, il francese Michel Pastoureau – destinato a diventare tinta dominante delle bandiere ecologiste issate contro i veleni dell’industrialismo selvaggio.

Non a caso volle scrivere un trattato di Fisica e uno di medicina naturale (Causae et Curae) dove, accennando ora a un malanno ora all’altro, dispensava suggerimenti e consigli che sopravvivono ancora oggi sotto la generica categoria di “rimedi della nonna” ma che ritroviamo negli ingredienti (prugnolo, ginepro, sambuco, miele…) dei numerosi integratori in commercio.

Nessuna radice, nessun frutto, nessuna erba tuttavia ti rimetteva in forma psicologicamente e fisicamente, secondo Ildegarda, quanto la “viriditas” concentrata nella prima delle gemme, lo smeraldo, utile contro mal di cuore, di testa, di stomaco. Bastava guardarlo e recitare una preghiera, oppure metterlo nel vino per poi ingerire la salutare bevanda. Sono rudimenti di litoterapia: se tieni uno zaffiro in bocca ogni mattina diventerai più intelligente, se tieni a portata di mano un topazio ti segnalerà la presenza di veleno nei cibi…

La “tristezza mondana” era appunto quel vizio molto simile a ciò che oggi chiamiamo depressione, raffigurato dalla badessa di Bingen come una donna avvolta da rami secchi e senza foglie

Interprete a suo modo degli influssi neoplatonici della Scuola di Chartres, Ildegarda considerò ogni tendenza al pessimismo una negazione di quell’anima mundi di cui l’uomo, luogo in cui la Creazione è ricondotta a unità, è testimone, partecipe e specchio. Null’altro va fatto se non assecondare la festa che l’universo manifesta (Ildegarda fu anche autrice di composizioni musicali), nessuna mortificazione è lecita se non espressamente ordinata da Dio: per questo permetteva alle sue monache di adornarsi i capelli con corone di fiori nei giorni in cui si celebravano le solennità cristiane.

C’era, in questi atteggiamenti, anche la reazione al diffondersi del catarismo (che sosteneva essere il Diavolo il creatore del mondo terreno) ma anche la saggezza pratica di chi aveva a che fare con la “tristezza mondana” di cui erano preda le monache che Ildegarda dirigeva. Era appunto quel vizio molto simile a ciò che oggi chiamiamo depressione, raffigurato dalla badessa di Bingen come una donna avvolta da rami secchi e senza foglie e sormontata da una nube nera, con piedi di legno, incapaci di camminare nella “verdezza”.

Così si lamenta la “tristezza mondana”: «In tutta la mia vita Dio non mi ha dato alcune bene… sono stata creata nell’infelicità e nell’infelicità sono nata, e vivo senza alcuna consolazione». Alla “tristezza” si oppone la voce di “gioia celeste”, come in un dialogo drammatico, descritto da Ildegarda nel Liber vitae meritorum: «Io vedo nella giusta luce tutte quelle cose create da Dio, che tu chiami cattive. Raccolgo dolcemente nel mio grembo i fiori di rosa o di giglio e tutte le cose verdeggianti, poiché lodo tutte le opere di Dio mentre tu raccogli dolore da dolore…». Ecco, per staccare la spina e rilassarsi, non è necessario guardare il mondo dall’oblò di un aereo, a volte può bastare un piccolo orto urbano (con la benedizione di una monaca santa).

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