Dopo il polverone sollevato dallo scandalo per l’hackeraggio nelle email del Comitato Nazionale Democratico (DNC), che ha provocato le dimissioni di Debbie Wasserman Schultz e di Amy Dacey – amministratrice delegata di DNC – insieme a dirigenti di primo livello come il direttore finanziario Brad Marshall e il direttore delle comunicazioni Luis Miranda, la macchina della campagna delle presidenziali di Hillary Clinton, ormai quasi all’ultimo giro, si è dovuta fermare ai box per una accurata pulizia interna.
La fuga di email è un fatto grave, e ha provocato un danno non da poco: hanno dimostrato che, durante le Primarie, il Comitato ha sotterraneamente e abusivamente favorito Hillary sul socialista anticonformista Bernie Sanders. La risposta immediata della Clinton è stata additare, in modo esplicito, i servizi segreti di Vladimir Putin come i responsabili dell’hackeraggio. Pochi ricordano, però, che cinque anni fa è successo proprio l’opposto: allora toccò a Putin accusare Hillary di ingerenze informatiche nella propria campagna elettorale.
Le più recenti accuse agli hacker governativi russi, però, sembrano coerenti con la tensione non solo dialettica che ora caratterizza le relazioni fra Stati Uniti e Mosca. Ma qualcosa non torna. Prima di tutto, analisti di cybersecurity hanno individuato prove convincenti che gli hacker intrufolatisi nei sistemi DNC battevano bandiera russa. E la notizia non è poi così sconvolgente, se pensiamo che i russi hanno lasciato (o voluto lasciare di proposito…) tracce inequivocabili anche quando sono state scoperte gravi e profonde infiltrazioni informatiche nel Dipartimento di Stato e in quello della Difesa americani. E allora, se è chiaro il mandante, meno chiaro è il suo movente.
La Russia ha più volte lamentato l’ingerenza degli Stati Uniti in elezioni ed affari interni di diverse nazioni in tutto il mondo. Le proteste sono state particolarmente forti specie quando hanno sostenuto componenti antirusse nei Paesi che, ai tempi di Yalta, erano stati assegnati all’antica sfera di influenza sovietica e che oggi, dopo la caduta del muro, sono stati aiutati a “spostarsi” nell’orbita occidentale, fino a essere utilizzate come basi militari avanzate ai confini con la Russia.
Poco gradita, poi, è stata l’ingerenza americana entro quegli stessi confini, in particolare per l’appoggio ai “movimenti bianchi” durante le elezioni della Duma nel 2011 e le presidenziali del 2012. Un intervento che, in risposta, ha provocato un repulisti di agenti stranieri infiltratisi nelle associazioni e nei mass media russi.
I russi hanno lasciato (o voluto lasciare di proposito…) tracce inequivocabili anche quando sono state scoperte gravi e profonde infiltrazioni informatiche nel Dipartimento di Stato e in quello della Difesa americani. E allora, se è chiaro il mandante, meno chiaro è il suo movente
Da questo punto di vista, le tracce lasciate dagli hacker rappresentano un messaggio inequivocabile: attenzione, l’orso russo è capace di restituire colpo su colpo le aggressioni ai propri affari interni. Poco meno esplicito di un biglietto da visita in caratteri cirillici lasciato sul luogo del delitto.
Inoltre, queste tracce coinciderebbero alla perfezione con altre impronte digitali che avrebbe lasciato lo stesso orso nel sostegno del Fronte Nazionale francese di Marine Le Pen e del partito nazionalista Ataka in Bulgaria, o nella proliferazione – quest’ultima tutt’altro che nascosta – di agenzie di notizie filorusse redatte in lingue straniere allo scopo di sostenere movimenti antigovernativi nelle nazioni occidentali.
Collegati tutti questi indizi, non risulterebbe così fuori luogo la distribuzione di informazioni controverse e imbarazzanti allo scopo di influenzare la campagna finale per le Presidenziali Usa.
Bene. Ma, come si diceva, qualcosa non torna. Il pezzo che non entra nel puzzle sta nel movente: quale motivo reale porterebbe Putin a prendere posizione in modo così esplicito nella campagna elettorale americana? Da tempo si rumoreggia di rapporti fra il candidato Trump e gli oligarchi russi, ma si dimentica che da vent’anni Putin è impegnato in una efficace campagna per schiacciarli ad uno ad uno.
Anche la propagandata linea di disimpegno dalla Nato e dagli impegni militari americani al di fuori dai confini – che, se realizzata da un futuro presidente Trump, agevolerebbe la Russia – deve essere vista come uno strumento di politica elettorale più che una reale deriva isolazionista da parte di un futuro leader che ha dimostrato di possedere una ambizione espansiva senza limiti.
La lettura più convincente rimane quella dello scontro elettorale: queste illazioni, a quanto appare, possono alienare da Trump comunità di elettori indecisi. In particolare, le enclavi ucraine, baltiche, polacche e tutte le comunità di immigrati provenienti dai Paesi che furono nell’orbita sovietica
In tutto questo, è veramente al di fuori della realtà la possibilità che Trump possa essere il “manchurian candidate” di Putin: il personaggio-candidato di un celebre film di John Frankenheimer del 1962 – ripreso da Jonathan Demme nel 2004 – che in realtà era un agente segreto dormiente di una potenza straniera.
Al contrario, la lettura più convincente rimane quella dello scontro elettorale: queste illazioni, a quanto appare, possono alienare da Trump comunità di elettori indecisi (i temutissimi swing voter che decidono da che parte stare pochi secondi prima di entrare in cabina) in Stati chiave che – grazie a un sistema elettorale praticamente demenziale – possono spostare l’intero blocco dei delegati di uno Stato da una parte o dall’altra. In particolare, le enclavi ucraine, baltiche, polacche e tutte le comunità di immigrati provenienti dai Paesi che furono nell’orbita sovietica sono decisive in stati chiave come l’Ohio, il Michigan, il New Jersey, l’Illinois, il Wisconsin, il Connecticut o la Pennsylvania. Ad esempio, solo a New York vivono un milione di cittadini di origine o discendenza polacca e 150.000 dall’Ucraina.
In questo caso, le impronte dell’orso russo trovate sul luogo del delitto dell’hackeraggio ai democratici servirebbero, in ultima analisi, per spostare voti proprio sulla candidata più seria e civilizzata.
Un ultimo possibile movente potrebbe essere quello del tanto peggio tanto meglio, lo stesso che portò l’ultimo Montanelli ad augurarsi che nel 2001 vincesse Berlusconi in modo che poi gli italiani potessero esserne vaccinati e non ricascarci più. Quella volta sappiamo come è andata. Ma è possibile immaginare allora che, Putin – se non altro grazie alla sua esperienza di agente Kgb nella Germania divisa in due – sia ancora un buon analista e non voglia incorrere nello stesso errore.