Il reddito di cittadinanza ci renderà schiavi della politica

È un’idea che guadagna sostenitori ogni giorno che passa, ma è molto pericolosa: perché disincentiva il merito e la formazione e lega i cittadini a un rapporto malsano e perverso con la politica. Piuttosto, servirebbe un fisco di cittadinanza

Nella storia di copertina dell’ultimo numero di Internazionale del 26 agosto, si racconta la necessità del reddito di cittadinanza come misura fondamentale per combattere la povertà: “se ognuno ricevesse dei soldi anche senza lavorare il mondo sarebbe migliore” recita il sottotitolo, in copertina. Mentre il titolo dell’articolo, pubblicato originariamente su De Corrispondent, recita “Reddito d’uguaglianza”. E in effetti uno stipendio minimo per tutti erogato dallo Stato, cioè pagato dalle tasse di altri cittadini, può sembrare un’idea suggestiva e progressista. Solo apparenza, purtroppo: perché il reddito di cittadinanza, in realtà, è un esperimento che riduce spazi di libertà e democrazia. Realizzare il reddito di cittadinanza, infatti, costituisce una misura politica profondissima le cui radici non poggiano solo sull’economia, ma sulla concezione etica e morale del sistema politica in cui vogliamo vivere.

Già, perché il fondamento morale della democrazia liberale poggia sulla partecipazione alla vita pubblica dell’individuo libero. In una società libera, il ruolo dello Stato, quindi della politica, non è quello di creare di sudditi né dei rentiers della cittadinanza. Il potere pubblico, e le regole da esso prodotte, devono alimentare un sistema entro il quale ciascun individuo normodotato è in grado di provvedere a se stesso. La capacità, derivante dalla libertà, di produrre ricchezza è il principio cardine intorno al quale si è sviluppata la civiltà occidentale. Come tutti i maggiori teorici liberali insegnano, da Costant a Tocqueville fino al più vicino Hayek, è la capacità dell’individuo dal difendersi dalle coercizioni imposte della politica che ha dato origine a quei diritti, di proprietà privata e libera intrapresa, su cui è stato costruito l’edificio del costituzionalismo liberale prima e della democrazia poi. Nel suo ultimo libro “Politics agains Domination” il filosofo politico di Yale Ian Shapiro spiega come una società sia tanto più libera quanto più in grado di limitare il dominio della politica sulla vita dei cittadini. Le istituzioni sono il presidio del “non dominio”, ovvero un argine alla dipendenza degli individui dalla politica e agli strumenti di coercizione di questa.

Tutto ciò serve per sostenere come ci sia un evidente conflitto tra il reddito di cittadinanza preso a vessillo da numerose forze politiche, che nient’altro è che una forma di reddito garantito universale e assoluto, erogato dallo Stato a prescindere dalla situazione di bisogno delle persone, e i principi cardine della democrazia liberale. Un conflitto che si articola intorno a due ragionamenti, il primo è che ricchezza e benessere non crescono sugli alberi e non si capisce perché dei soggetti abili a fornire un contributo alla loro produzione debbano essere esclusi a priori dal dovere di badare a se stessi e di contribuire allo sviluppo generale della società. Nemmeno la nostra Costituzione, che tanti cedimenti in nome dello Stato sociale ha consentito, si è mai spinta a prevedere un’assistenza indiscriminata per tutti, tanto è vero che ha previsto all’articolo 4 il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Un individuo sussidiato è incentivato alla pigrizia e alla dipendenza dalla politica. In altre parole, il reddito di cittadinanza non è che l’istituzionalizzazione del clientelismo su scala nazionale. Cosa succederebbe se dopo qualche anno lo Stato fosse costretto a rimuovere il reddito di cittadinanza?

Il secondo è che il reddito di cittadinanza è uno strumento che rende gli individui ancora più dipendenti dalla politica riducendo gli incentivi delle persone, e dei giovani in particolare, ad accumulare titoli di studio, formazione ed esperienza lavorativa. Un individuo sussidiato è incentivato alla pigrizia e alla dipendenza dalla politica. In altre parole, il reddito di cittadinanza non è che l’istituzionalizzazione del clientelismo su scala nazionale. Cosa succederebbe se dopo qualche anno lo Stato fosse costretto a rimuovere il reddito di cittadinanza? Verosimilmente milioni di persone che nel periodo in cui hanno ricevuto il sussidio hanno rinunciato a formarsi, studiare o lavorarsi proprio perché imboccate dalla politica si ritroverebbero a essere “inoccupabili”, cioè a non avere capacità e metodo per inserirsi nel mercato del lavoro. Per tutti la soluzione sarebbe correre dal politico più vicino a chiedere un’altra forma di assistenza. Insomma, si scivolerebbe sempre di più verso quelle forme di compravendita legalizzata del consenso che avvelenano la democrazia, distruggono le istituzioni e massacrano l’economia. I danni etici, politici ed economici sarebbero evidenti e per dirla con Adam Smith “nessuna società può essere felice se la sua maggior parte è povera e miserabile.”

Ciò che si potrebbe fare, per aiutare davvero i cittadini, è la creazione di un fisco di cittadinanza, semmai. Una proposta in cui non solo siano semplificati i meccanismi di pagamento delle imposte, ma che crei una no tax area in cui le tasse non siano pagate affatto. Per esempio, se si volessero aiutare giovani e redditi bassi, si potrebbe eliminare il prelievo fiscale per redditi inferiori ad una certa cifra, poniamo 15mila euro annui. Un meccanismo che premierebbe coloro che sono al primo impiego e le fasce di lavoratori più deboli a cui lo Stato non chiederebbe alcun contributo. Una misura di libertà e aiuto, senza alimentare gli effetti di “nullafacenza di Stato”, disordine della casse pubbliche e arrembaggio clientelare del reddito di cittadinanza. Misure che promuovono, al massimo, la decadenza della democrazia liberale.

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