Non c’è peggior nemico per un fanatico religioso di un marxista. La lotta dei curdi siriani del YPG – il braccio armato del partito socialista PYD, legato a sua volta al partito marxista dei lavoratori, il più noto PKK turco-curdo – lo sta dimostrando ancora una volta. Pur avendo sfumato la propria connotazione ideologica (in un momento in cui gli aiuti da parte degli Stati Uniti sono fondamentali non è il caso di dare munizioni alla propaganda turca, che li dipinge come “terroristi comunisti”) e avendo redatto una Costituzione per il Rojava – il Kurdistan siriano – di stampo democratico, pluralista e liberale, i curdi siriani hanno nelle caratteristiche storiche di un movimento di sinistra alcuni dei propri punti di forza, sia sul campo che soprattutto a livello di comunicazione e propaganda.
Innanzi tutto la questione femminile. Mentre l’Isis porta avanti una visione medievale della donna – sono tristemente note le violenze, la discriminazione, le riduzioni in schiavitù e via dicendo – i curdi siriani non solo riconoscono un ruolo politico determinante alle donne nella loro embrionale entità statale, ma hanno addirittura unità combattenti, secondo una tradizione che risale già alla nascita dell’Armata Rossa. Non c’è solo l’YPJ curdo, il famoso braccio armato femminile gemello del YPG, ma anche un’unità di donne yazide, l’YJÊ.
Considerati eretici dai fanatici musulmani, gli yazidi erano stati sterminati nell’estate del 2014 e le loro donne rapite e vendute come schiave sessuali per i combattenti dell’Isis: tra quelle che si sono salvate in molte hanno deciso di arruolarsi. Questa partecipazione femminile alla lotta armata non è solo un potente strumento di emancipazione e di propaganda, ma ha anche un risvolto tattico-psicologico importante: per i combattenti jihadisti non c’è disonore peggiore che essere uccisi da una donna, pare ritengano – secondo alcuni report americani – che in tal caso non ci saranno vergini ad attenderli in paradiso.
Come ai tempi della Guerra Civile Spagnola, accanto alle unità combattenti locali si sono aggiunti progressivamente sempre più volontari stranieri che provengono da una moltitudine di Paesi.
Sono state fondate Brigate Internazionali – alcune di chiara ispirazione comunista – in cui sono affluiti curdi-turchi, circassi, spagnoli, portoghesi, rumeni, americani, canadesi, italiani, tedeschi, olandesi, scandinavi e tanti altri ancora. Molti sono ex militari, di cui alcuni hanno già combattuto in scenari simili durante la guerra americana in Iraq dopo il 2003, altri si sono addestrati sul campo (è nota la presenza di forze speciali americane – e forse non solo – tra i curdi siriani, che svolgono anche compiti di addestramento). Nella percezione delle opinioni pubbliche occidentali un nemico “cattivo” come lo Stato Islamico non si vedeva dai tempi dei Nazisti, e i curdi – laici, progressisti e femministi – che con successo lo contrastano esercitano un grande potere di attrazione.
Se l’internazionalismo non è appannaggio esclusivo dei curdi nel contesto della guerra civile siriana – anche nelle fila dell’Isis militano combattenti di decine di diverse nazionalità -, la laicità e la tolleranza religiosa lo sono innegabilmente (anche il “laico” Assad si affida a milizie islamiche sciite, come l’Hezbollah libanese o formazioni analoghe afghane e iraniane).
I curdi sono tradizionalmente musulmani sunniti ma il PYD si fa portatore di una visione secolare e socialista, in cui uomini e donne sono uguali, c’è tolleranza religiosa – tra le fila del YPG combattono fianco a fianco islamici, cristiani (locali, come gli assiri, o stranieri), circassi, ebrei, yazidi e atei -, pratiche come il velo o la barba lunga non sono imposti e il consumo di alcol e tabacco non è proibito.
Facendo leva su queste caratteristiche – oltre che sul proprio valore sul campo – i curdi siriani stanno calibrando con intelligenza la propria comunicazione per presentarsi agli occhi dell’Occidente come la forza più democratica, tollerante e a noi umanamente vicina dell’area (esprimono costantemente solidarietà quando l’Isis colpisce nelle città europee, ad esempio). Questo è importante nell’ottica di ricevere aiuti per combattere lo Stato Islamico ma non solo: è utile nella competizione con il partito nazionalista curdo-iracheno di Masud Barzani – il PDK, che combatte contro l’Isis in Iraq ma che ha stretti legami con Ankara, nemica giurata di PYD e PKK -, nello scontro con la Turchia (che con Erdogan è sempre più invisa all’Occidente, mentre i curdi guadagnano simpatie) e in generale per gettare oggi le basi dell’auspicata indipendenza di domani.
Il punto debole dei curdi siriani (oltre all’ostilità di Ankara, membro Nato e alleato indispensabile per Washington) è l’impopolare alleanza di comodo con Assad, il dittatore siriano che sta facendo macelleria del suo popolo. Negli ultimi giorni si sono tuttavia registrati violentissimi scontri ad al-Hasaka, nel Rojava occidentale, tra lealisti (che controllavano una enclave nella città) e curdi del YPG, dopo che l’aviazione di Assad aveva colpito questi ultimi. Ora si cerca una mediazione – sono coinvolti anche Russia e Stati Uniti, con i secondi che hanno intensificato il controllo dei cieli sopra al-Hasaka per evitare altri raid di Damasco – ma è chiaro che l’alleanza non pare destinata a reggere a lungo. Specularmente il tentativo di coinvolgere quanti più ribelli arabi siriani possibile all’interno delle Syrian Democratic Forces (una coalizione di varie sigle ribelli di cui l’YPG è la spina dorsale) incarna la speranza e l’interesse dei curdi di trovare delle sponde all’interno della parte “moderata” della ribellione, fondamentali per sottrarre all’Isis aree tradizionalmente estranee al Kurdistan siriano e per indebolire la contro-propaganda della Turchia.