Dopo averla covata e preparata nelle ultime settimane, Erdogan ha fatto la sua mossa in Siria: nella notte del 23 agosto colonne di carri armati e mezzi blindati turchi sono entrate in Siria nell’area del valico di Jarablus – cittadina di frontiera controllata dallo Stato Islamico – al fianco di oltre mille e cinquecento ribelli siriani filo-turchi che erano stati ammassati da Ankara dal proprio lato del confine negli ultimi giorni. Li appoggiano anche l’artiglieria, l’aviazione e le forze speciali turche. Segnalata poi anche la presenza di forze speciali degli Stati Uniti, che pare abbiano dato la propria benedizione all’operazione, battezzata “Scudo dell’Eufrate”. L’attacco è stato violento, la disparità di forze in campo è tale che non dovrebbero esserci dubbi sull’esito della battaglia – che pare già vinta, con la cittadina abbandonata dagli uomini del Califfo – ma non va sottovalutata la pericolosità dell’Isis in un contesto di guerriglia urbana, con cecchini e trappole esplosive.
L’obiettivo dichiarato della Turchia è duplice: colpire l’Isis ma, soprattutto, “garantire l’integrità territoriale della Siria” nelle parole del Presidente turco. Cioè impedire ai curdi siriani – che sono, dopo la conquista di Manbij, vicinissimi a unificare il Rojava (Kurdistan siriano): appena 50 km di terreno controllato dall’Isis separano i cantoni orientali da quello occidentale – di creare un’entità autonoma al confine meridionale della Turchia. Da sempre l’incubo strategico di Ankara, che teme si fomenti il separatismo dei curdi turchi nel sud-est del Paese e che attualmente è in guerra con il Pkk (il partito curdo-turco marxista dei lavoratori di Ocalan, legato al Pyd curdo-siriano).
La mossa turca in Siria, si diceva, è stata preparata con cura. Il riavvicinamento tra Mosca e Ankara, maturato dopo il fallito golpe in Turchia e il logoramento dei legami con l’Occidente, è stato subito speso nella partita. Difficilmente Erdogan si sarebbe mosso al di là del confine senza la rassicurazione da parte di Putin – la Russia ha il controllo dei cieli di Siria grazie ai sistemi di arma che ha portato nel Paese, paradossalmente proprio in seguito all’abbattimento di un suo caccia bombardiere da parte dell’aviazione turca nel novembre 2015 – che non ci sarebbero state reazioni bellicose. Non solo. Il presidente turco ha anche abilmente agitato lo spauracchio dell’indipendenza dei curdi di fronte a Damasco (con cui ha più o meno ufficiosamente riaperto un canale di dialogo) e a Teheran (l’Iran è uno dei quattro Stati – insieme a Turchia, Siria e Iraq – tra cui sono divisi i curdi).
«La recente fiammata di violenze tra truppe lealiste di Assad e curdi siriani del YPG ad al-Hasaka, che ha rotto una alleanza di convenienza che durava da oltre due anni, si spiega anche come risultato dell’azione diplomatica della Turchia su Damasco dopo la vittoria curda a Manbij», spiega Leandro Di Natala, analista del European Strategic Intelligence and Security Center di Bruxelles. «Inoltre il comandante curdo che aveva annunciato la creazione del Consiglio militare di Jarablus, nell’ottica di attaccare la città, è stato ucciso pochi giorni fa da uomini che secondo i curdi appartengono ai servizi segreti turchi. La priorità per la Turchia, dopo il fallito golpe, sembra quindi essere definitivamente passata dall’abbattere Assad allo scongiurare la nascita di un’entità autonoma curda». Damasco – uscita ammaccata dallo scontro coi curdi ad al-Hasaka e che ha dovuto accettare una tregua – protesta ora ufficialmente per la violazione turca della sua sovranità nazionale, ma per il momento non si è registrata alcuna reazione militare sul campo.
Dopo aver sostenuto per anni i guerriglieri curdi siriani come fanteria contro lo Stato Islamico l’America non può probabilmente permettere che Ankara li prenda eccessivamente di mira. Al momento, quindi, sembra che il via libera americano sia circoscritto: la Turchia, e i ribelli da questa sostenuti, sarà supportata nel suo sforzo per liberare la fascia di confine di circa 70 km che da Jarablus va fino a Mare. E qualche colpo contro i curdi siriani, per evitare che intervenendo complichino la partita è stato tollerato
All’operazione “Scudo dell’Eufrate” partecipano anche gli Usa, con forze speciali e raid dell’aviazione. Washington da un lato sembra intenzionata ad assecondare la Turchia, con cui ha interesse a ricucire i rapporti dopo lo strappo post-golpe, ma anche a controllare le sue mosse. Dopo aver sostenuto per anni i guerriglieri curdi siriani come fanteria contro lo Stato Islamico l’America non può probabilmente permettere che Ankara li prenda eccessivamente di mira (anche se alcuni colpi di artiglieria turca hanno già bersagliato postazioni curde in Siria, le dichiarazioni del governo turco sono molto minacciose contro l’YPG e il vicepresidente Usa Biden, in visita in Turchia, ha chiesto ai curdi di ritirarsi al di là dell’Eufrate). Al momento, quindi, sembra che il via libera americano sia circoscritto: la Turchia, e i ribelli da questa sostenuti, sarà sostenuta nel suo sforzo per liberare la fascia di confine di circa 70 km che da Jarablus va fino a Mare (città già sotto il controllo dei ribelli) dalla presenza dello Stato Islamico. Qualche colpo contro i curdi siriani, per evitare che intervenendo complichino la partita (a Manbij l’YPG coi suoi alleati della Syrian Democratic Forces stava pianificando un attacco verso Jarablus), è stato tollerato ma eventuali attacchi diretti sarebbero un altro discorso.
Comunque Erdogan, se riuscisse a ottenere il controllo della zona di confine in questione, centrerebbe una serie di obiettivi (“minori”, rispetto alle ambizioni turche degli ultimi anni, ma più di quanto abbia ottenuto finora): manterrebbe alta la pressione sui curdi, avendo un posizionamento tattico ottimale per attaccarli un domani e spaccare in due il Rojava; avrebbe una “buffer zone” – a lungo desiderata – per controllare gli ingressi da e per la Turchia (ora che l’Isis è diventato una minaccia, dopo essere stato a lungo un interlocutore), e per collocare i profughi siriani; e, infine, otterrebbe una vittoria di immagine da poter spendere in patria dopo anni di fallimenti nella propria politica mediorientale.
«Più che uno scontro diretto tra esercito turco e curdi siriani credo rischiamo di assistere a una nuova fiammata di violenze tra ribelli siriani filo-turchi e YPG», prosegue Di Natala. «Questo complica molto la situazione, considerato che gli americani sostengono attivamente i curdi siriani in quanto unica forza di terra finora dimostratasi efficace contro l’Isis. Quindi ritengo che, in particolare dopo l’elezione del nuovo presidente, gli Usa cercheranno di limitare le azioni dei filo-turchi contro i curdi e, non volendo ancora Ankara abbandonare la Nato, penso abbiano le leve adeguate per farlo. Secondo me assisteremo a una fase di scontri tra ribelli siriani sostenuti da Erdogan – che cercheranno di creare delle proprie aree cuscinetto a ridosso di quelle curde – e curdi siriani, ma non penso sia probabile che la situazione precipiti in uno scontro frontale con l’YPG».
«Ritengo che, in particolare dopo l’elezione del nuovo presidente, gli Usa cercheranno di limitare le azioni dei filo-turchi contro i curdi e, non volendo ancora Ankara abbandonare la Nato, penso abbiano le leve adeguate per farlo. Secondo me assisteremo a una fase di scontri tra ribelli siriani sostenuti da Erdogan e curdi siriani»
Se l’operazione “Scudo dell’Eufrate” dovesse effettivamente arrestarsi dopo la messa in sicurezza della fascia di confine tra Jarablus e Mare – impresa che potrebbe comunque avere un alto prezzo per le forze armate turche – lo scenario siriano sarebbe dunque modificato in modo non determinante. Erdogan potrebbe addirittura sfruttare le relazioni con Mosca, Damasco e Teheran, recentemente migliorate, per ritagliarsi un ruolo di mediatore (restando alleato nella Nato degli Usa) nella crisi siriana e provare così a scongiurare politicamente la nascita di un’entità curda (bisognerà poi vedere cosa Putin chiederà in cambio per la disponibilità mostrata negli ultimi giorni). Ma in uno scenario liquido come quello siriano non si può escludere nemmeno che la situazione evolva in modo ad oggi ritenuto improbabile: se ai proclami bellicosi dei ministri turchi – che paragonano Isis e Ypg e promettono di liberare il nord della Siria dalla presenza di entrambi – dovessero seguire azioni corrispondenti, allora la situazione rischierebbe di scivolare in un caos peggiore di quello già sotto gli occhi del mondo.