CalabriaA Melito da tempo si sta provando a creare uno sportello antiviolenza, senza soldi pubblici

Nel paese dove una ragazzina di 13 anni è stata stuprata per tre anni, un gruppo di donne sta provando a costituire uno sportello antiviolenza. Con un corso per operatrici tutto autofinanziato. Mentre la regione Calabria dal 2007 non ha mai destinato un budget ai centri antiviolenza

Titti Carrano, presidente di D.i.Re, la Rete nazionale dei Centri antiviolenza, ha invitato la ministra Maria Elena Boschi a “scendere”, come si dice da queste parti, a Melito di Porto Salvo, il paese calabrese dove una ragazza di 16 anni è stata violentata da un branco di nove giovani maschi da quando aveva 13 anni. Non un invito di cortesia, alla ministra che da maggio ha la delega alle Pari opportunità. Ma un invito di sostanza, dicono. Perché a Melito il progetto di tirare su uno sportello antiviolenza c’è da tempo. Un’iniziativa di un’associazione privata, senza aiuti pubblici, come spesso accade per le iniziative che riguardano la tutela delle donne. In una regione in cui i nove centri accreditati vanno avanti spesso solo grazie al volontariato e a donazione sporadiche. E dove, nonostante esista una legge antiviolenza dal 2007, la Regione non l’ha mai finanziata del tutto per metterla in pratica.

A Melito non c’era solo l’omertà che ha coperto la violenza subita dalla 13enne. La scorsa primavera, prima che si conoscesse la storia dello stupro collettivo, un gruppo di donne aveva già avviato il percorso per creare un sportello comunale antiviolenza. Un posto dove andare a parlare, denunciare, chiedere consigli in un ambiente pervaso dalla ‘ndrangheta e dal maschilismo. Un posto dove, forse, sarebbe potuta andare anche la ragazza violentata per anni.

L’associazione femminile Fidapa (Federazione italiana donne arti professioni e affari), tramite Zina Crocè, ex commissaria regionale per le pari opportunità calabrese che vive a Melito, a marzo 2016 aveva organizzato nel paese un convegno dal titolo “Insieme per contrastare la violenza contro le donne. Analisi e azioni”. Tra i relatori c’erano nomi importanti. E le istituzioni, dalla presidenza del consiglio regionale al Comune, avevano patrocinato l’evento. Doveva essere il punto di partenza per avviare un corso di formazione per le operatrici che sarebbero state impiegate nello sportello antiviolenza comunale.

La Fidapa aveva chiesto aiuto al Centro antiviolenza “Roberta Lanzino” di Cosenza, attivo dal 1988, che nel 2010 si è visto costretto a chiudere la sua casa rifugio per mancanza di fondi pubblici e che oggi si regge solo grazie al lavoro delle volontarie. Dopo una battusta d’arresto iniziale, ora l’associazione ha coinvolto di nuovo il centro cosentino. Ma sempre di un’iniziativa privata si tratta. «Il corso sarà completamente autofinanziato. Lo pagheranno le componenti della Fidapa», spiega Zina Crocè. Niente fondi da parte degli enti locali. Il sindaco di Melito di Porto Salvo durante il convegno di marzo si era detto disponibile a organizzare lo sportello. Ma al momento non risulta che sia stato messo a bilancio nessun budget. «In contesti come questi è importante che le donne siano consapevoli di cosa è violenza», dice Crocè. «E che sappiano che c’è un posto dove poter andare a denunciare».

La Fidapa a marzo 2016 aveva organizzato un convegno sulla violenza contro le donne. Un’iniziativa privata, che avrebbe dovuto essere il punto di partenza per organizzare un corso di formazione e istituire uno sportello antiviolenza. Dopo una battuta d’arresto, il corso ora si farà. Ma è tutto autofinanziato dall’associazione

Calabria, la lotta gratuita alla violenza di genere

Ad oggi, i centri antiviolenza accreditati in Calabria sono nove, di cui due hanno una casa rifugio. La prima tranche dei fondi a loro destinati dalla legge sul femminicidio del 2013, dopo uno stallo lungo un anno, è stata distribuita dalla regione solo a fine 2015. E con il profumo dei finanziamenti, sportelli ed enti contro la violenza sulle donne sono spuntati come funghi anche qui, spesso senza seguire i requisiti minimi che chi fa battaglia da anni conosce. «Nei centri calabresi trovi di tutto», spiega Antonella Veltri, responsabile del centro Lanzino di Cosenza e consigliera nazionale di D.i.Re. «Dalle donne con problemi economici a quelle che hanno problemi di droga o alcolismo, ma non di violenza. Non c’è un approccio di genere. In uno degli ultimi centri nati ci sono addirittura operatori uomini!».

E poi c’è la legge regionale disattesa: la Regione Calabria, la stessa che è corsa a organizzare una manifestazione nazionale per il 21 ottobre a Melito, dal 2007 ha messo a bilancio solo pochi spiccioli (40mila euro circa) per finanziare i centri. Il coordinamento dei centri calabresi, dopo anni di denunce e battaglie, ha ottenuto l’istituzione di una tavolo di discussione. Ma il tavolo ancora non si è mai riunito.

Ecco perché, dopo i fatti di Melito, in questa parte d’Italia si invoca la presenza della ministra Boschi. «Non una passerella», sottolineano tutti. Ma una presenza «per dare sostegno e continuità ad alcune forze che già nel territorio ci sono». E che sono emerse in questo caso tragico, dalle associazioni alla scuola, che ha sostenuto la ragazza nella denuncia. Anche perché l’8 settembre scorso a Roma è stata istituita la cabina di regia tra governo, regioni e comuni per l’applicazione del tanto atteso Piano nazionale antiviolenza sulle donne, con lo stanziamento di 19 milioni di euro in progetti. «La presenza della ministra Boschi in Calabria», dice Antonella Veltri, «servirebbe a dare un segno che questo Piano non sarà solo una formalità». Cominciando a lavorare, magari, sul futuro sportello antiviolenza di Melito.

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