E niente, pure all’ultimo gli manca il Quid, o almeno è quel che si sussurra nei corridoi del centrodestra e nei cauti editoriali dei giornali d’area sulla due giorni di Stefano Parisi, che a questo punto ha davanti a sé due strade. Quella di Alfano, Toti, Fitto, i No-Quid che hanno tentato la scalata facendosi tondi, accoglienti, morbidi, dando l’idea di poter accontentare tutti e soprattutto l’ossequiosa continuità con la Forza Italia di Silvio Berlusconi, oppure scegliere la via di quelli che il Quid ce l’avevano, vedi Gianfranco Fini.
Entrambe le categorie sono finite malissimo, fino al punto che si comincia a disperare della possibilità di una successione a destra: tutte le strade – lo strappo, l’investitura politica dall’alto, la nomina a termini di statuto, la scalata a partire dal territorio – sono state tentate, nessuna ha avuto un risultato.
«Parisi? Sembra Monti» dice Fratelli d’Italia. «Meglio soli che con questo» twitta Salvini. Gli altri tacciono, non c’è manco bisogno di parlare visto che i retroscena raccontano della gran freddezza del Cavaliere e quindi si spera di chiudere presto la pratica. Nessuno sembra valutare con lucidità politica le conseguenze di un ennesima falsa ripartenza, che sarebbe la quinta o la sesta in cinque anni, roba da demolire anche il più fedele degli elettorati. Solo nel marzo scorso, sei mesi fa, l’astro nascente era Giovanni Toti, pure lui con una fondazione – si chiamava Change – «fulcro di una nuova stagione politica». Mezza nomenklatura di Forza Italia stava con lui, fu affondato in cinque minuti dalla fatwa del Cavaliere che pure lo aveva personalmente scelto nei ranghi Mediaset, incoronato con una settimana-fitness sul Lago di Garda, nominato consigliere politico, indicato come futuro Coordinatore unico del partito.
L’area del centrodestra si è ristretta come un maglione lavato con l’acqua bollente, l’elettorato della protesta se ne è andato col Cinque Stelle, quello della proposta si è adeguato a Renzi. E dopo Silvio un leader non si trova
Prima di Toti – appena prima – c’era stato Raffaele Fitto. «È un po’ una mia protesi», diceva Berlusconi, blandendolo come solo lui sa fare: «purosangue», «esempio della nuova classe dirigente che deve nascere e crescere». Il purosangue si fece la sua corsetta, poi fu riportato nelle stalle e liquidato da un’assemblea di Forza Italia convocata per l’occasione. Era il marzo 2015. Lo scettro della successione a quel punto sembrava in mano a Matteo Salvini: «Il goleador», lo definiva nelle interviste il Cavaliere, quello «che va in tv e segna sempre», ideale spalla della squadra di cui Silvio si immaginava allenatore e capitano: durò fino alle Regionali 2015, poi adieu.
Dunque, andando a ritroso: Parisi, Toti, Salvini, Fitto. E prima di Fitto ovviamente Alfano, coordinatore unico del Popolo della Libertà dal 2011 a fine 2012, quando dopo aver fatto il tesseramento (un milione di iscritti), messo in campo le primarie del centrodestra, scritto i regolamenti, fissato la data del 16 dicembre e annunciato la sua personale candidatura, fu costretto a disdire tutto.
Il tormentone del Quid cominciò allora: è passato un lustro e siamo ancora lì mentre nel frattempo l’area del centrodestra si è ristretta come un maglione lavato con l’acqua bollente, l’elettorato della protesta se ne è andato col Cinque Stelle, quello della proposta si è adeguato a Renzi, e sul territorio la classe dirigente si rifugia nelle liste civiche perché il vecchio logo forzista si porta dietro un’aria da cimitero.
Fra le cose su cui il centrodestra dovrebbe ragionare, immaginando gli effetti della quinta o sesta ripartenza mancata in cinque anni, c’è la storia dei cicli politici italiani, quelli dei grandi partiti di potere, a cominciare dalla Dc che si sfibrò proprio così: in una inesausta serie di micro-scissioni, cambi di nome e ragione sociale, speranze di riorganizzazione puntualmente tradite, mentre il mondo cambiava – cadeva il Muro di Berlino, nuovi ceti e poteri economici salivano alla ribalta, la Chiesa si ritagliava un ruolo diverso, scoppiava Tangentopoli – e lì, a Piazza del Gesù, non si riusciva a immaginare niente oltre la nostalgia degli anni belli.
«Molti diventarono malinconici e pretesero di replicare, artificialmente, un passato che non c’era più» raccontò Mino Martinazzoli dopo il disastro del Partito Popolare, estrema filiazione di una fase di delirio identitario – Cristiano-Sociali, Cristiano-Democratici, Cattolico-Sociali – in cui la nomenklatura frullò il suo elettorato fino a non fargli capire più niente. Ecco, ricordarsi che anche gli elettorati più fedeli si stufano. Che il “partiam partiamo” si può cantare due, tre, quattro, cinque volte ma alla sesta o si parte davvero o la gente prende il bagaglio e se ne va per conto suo.