Trattativa serrata, conta delle teste, riunioni di gruppi ristretti. Le settimane che rimangono prima dell’annunciata fusione tra la Banca Popolare di Milano e il Banco Popolare ricordano le ore che precedono i voti di fiducia cruciali per la sopravvivenza dei governi. La posta in gioco non è meno alta. Non c’è in gioco solo la credibilità delle banche coinvolte, come ha ricordato il consigliere delegato di Bpm, Giuseppe Castagna, ma anche quella del sistema bancario italiano, alla prima vera prova di matrimonio dopo la riforma delle banche popolari. Eppure non sarà una passeggiata. L’operazione passa da un voto di due assemblee di soci, che vanno convinti uno a uno. Le regole sono quelle di sempre, che fanno tanto Prima Repubblica: una testa un voto, maggioranza qualificata (servono due terzi dei sì), deleghe concesse agli azionisti in maniera diversa a seconda del loro profilo. Tra qualche mese tutto ciò sarà un ricordo, perché in ogni caso entro la fine dell’anno sarà votata la trasformazione in Spa. Ma il 15 ottobre ci sarà un’ultima prova di forza tra favorevoli e contrari al progetto di fusione. L’esito è meno scontato di quanto le rassicurazioni a mezzo stampa degli interessati facciano credere.
A Verona, sede del Banco Popolare, istituto che è il risultato di numerose fusioni (tra cui le principali sono quelle tra banche popolari di Verona, Novara, Lodi e il Credito Bergamasco) non sono attese sorprese circa il via libera all’operazione. A Milano, invece, i conti della serva dicono che le cose stanno diversamente. Tra i contrari ci sono i pensionati, questo lo si è letto spesso. Tuttavia, è bene ricordare che non si tratta di una componente residuale. Stiamo parlando di 3.000 pensionati-soci, a cui vanno aggiunti 5.000 familiari. Particolare non da poco: ciascun pensionato oltre al proprio voto potrà portare 10 deleghe. Quindi in linea teorica sono 11 voti a testa. I 7.000 dipendenti-soci possono invece votare solo per sé e per i figli minorenni. Ci saranno poi i loro altri familiari. Infine ci sono i circa mille voti dei soci non dipendenti, tra presenze fisiche e deleghe (anche in questo caso, dieci a testa). Questi numeri non trovano conferma presso la Bpm, che diffonde solo due dati: i soci sono 46.967, mentre la banca ha 7.720 dipendenti. I dati sui votanti, aggiungono dalla banca, possono essere soggetti a interpretazioni di parte.
Perché non è semplice raggiungere la quota dei due terzi di sì? Perché i pensionati hanno espresso la loro contrarietà con chiarezza. Lo hanno fatto nei mesi scorsi e lo hanno ribadito anche dopo un incontro, lo scorso 22 settembre, che sarebbe dovuto essere chiarificatore. Chi ha partecipato lo descrive invece come una sorta di fuoco di fila, con un solo tiepido applauso per il consigliere delegato Giuseppe Castagna, dopo la presentazione del piano industriale, mentre i successivi applausi sono stati riservati alle critiche dei rappresentanti dei pensionati. «Siamo contenti della folta partecipazione perché vogliamo il dialogo – ha detto Castagna al termine dell’incontro -. L’assemblea è sempre complessa ma l’importante è che la gente arrivi consapevole e non guidata dalla pancia». Ha ringraziato i pensionati «di averci ascoltato e di aver permesso un dialogo costruttivo» e si è detto pronto a «ulteriori momenti di dialogo».
È da vedere se tutti i pensionati decideranno di andare a fondo – d’altra parte il voto, al di là delle indicazioni delle associazioni, rimane una libera scelta – su una decisione che indubbiamente creerà un terremoto a Milano, Verona e senz’altro anche a Roma, in via Nazionale e a Palazzo Chigi e più in generale nel sistema bancario italiano. Ma c’è un precedente che in questi giorni viene ricordato. Quando fu eletto il presidente del Consiglio di sorveglianza, Nicola Rossi raccolse 3.356 voti, dei quali circa 2.300 da parte dei pensionati, mentre la seconda lista, sostenuta dai soci non dipendenti, ne raccolse 1.231. Un altro migliaio abbondante furono i dipendenti soci che votarono per Rossi. Se il 15 ottobre andassero a votare le stesse persone (tra presenze e deleghe), e ipotizzando che tutti i dipendenti e i soci non dipendenti fossero a favore, la situazione sarebbe di 2.300 “no” e 2.000 “sì”. I due terzi sarebbero lontani. Tuttavia, i numeri attesi sulla partecipazione sono molto maggiori. I biglietti per l’assemblea si possono prenotare fino al 12 ottobre e quindi non ci sono ancora dati, ma nelle filiali ci sarebbero pressioni sui lavoratori perché vadano a votare. Complice anche il voto palese, la votazione dei dipendenti è prevista nettamente a favore della fusione (anche i sindacati sono per il sì) e quello dei soci non dipendenti è tendenzialmente favorevole. «Noi abbiamo 45mila soci e in genere partecipano in 5mila, fino al giorno dell’assemblea non possiamo fare calcoli», ha detto Castagna all’uscita dell’incontro dello scorso 22 settembre.
I pensionati soci non sono una componente marginale: sono circa 3.000, a cui vanno aggiunti 5.000 familiari. Particolare non da poco: ciascun pensionato oltre al suo voto potrà portare 10 deleghe. I 7.000 dipendenti-soci possono invece votare per sé e solo per i figli minorenni
Ma come sono organizzati i pensionati? Sulle questioni societarie non si esprime Assopensionati, che è un’associazione sindacale. Mentre si sono schierate contro il merge sia l’associazione Lisippo, che rappresenta qualche centinaio di pensionati soprattutto a Roma e nel Lazio, sia il Patto per la Bpm, che conta un migliaio di iscritti. Una data da segnarsi sul calendario, per capire come andrà a finire l’assemblea del 15 ottobre, è quella del 4 ottobre. Sarà allora che il Patto esprimerà la sua posizione, anche se i documenti del 17 maggio, del 27 giugno e del 6 settembre non lasciano dubbi circa la contrarietà.
Al di là dei conteggi, il punto è chiedersi perché la fusione sia tanto importante e perché i soci pensionati di Bpm sembrino propensi a mettersi di traverso e a rigettarla. La fusione è importante perché sarebbe la prima che avverrebbe dopo la riforma delle banche popolari, che aveva tra gli scopi principali quello di agevolare l‘unione tra istituti. La massa critica e le sinergie di costo vengono considerate fondamentali per reggere il calo di redditività che l’unione di nuovi strumenti tecnologici e tassi bassi stanno provocando in tutta Europa. Tutti i sistemi bancari problematici, dalla Spagna alla Grecia, sono passati nel loro percorso di risanamento da grandi merge & acquisition. Per il governo e la Banca d’Italia significherebbe non solo provare alla Bce e alla Commissione europea che la riforma è stata una cosa seria. Significherebbe anche salvare un istituto in difficoltà, il Banco Popolare, mettendolo in pancia a una banca sana, come da tradizione di Palazzo Koch. Il Banco, nonostante abbia passato indenne gli stress test sia nel 2015 che nel 2016, ha problemi di costi (il cost / income è al 72,5%, che scende al 66,9% al netto di componenti straordinarie e oneri “di sistema”) e di crediti deteriorati, ereditati soprattutto dalla Popolare di Lodi e da Italease.
Come ha fatto notare Claudio Gatti sul Sole 24 Ore, il Banco come gruppo ha chiuso il 2015 con il tasso degli Npl al netto degli accantonamenti dell’8,2%, inferiore solo a quello del grande malato d’Italia, il Monte de’ Paschi (8,7%), e quasi doppio della media degli altri otto principali istituti italiani. Tra il 2010 e il 2015 le esposizioni deteriorate del Banco sono aumentate di 7 miliardi, passando da 13 a 20. La Bce, dopo aver ricevuto i vertici del Banco per farsi illustrare la fusione, ha richiesto un aumento di capitale da un miliardo. Andato in porto senza patemi, va detto, a differenza di quanto accaduto con Popolare di Vicenza e Veneto Banca. A fine giugno il Common Equity Tier 1 della banca era pari al 14,8%, in miglioramento rispetto al 13,2% di inizio anno, proprio grazie all’aumento di capitale. La Bce ha imposto anche degli accantonamenti per 980 milioni a copertura dei crediti deteriorati, ben 600 milioni in più dei 375 milioni di un anno prima.
Il Banco come gruppo ha chiuso il 2015 con il tasso degli Npl al netto degli accantonamenti dell’8,2%, inferiore solo a quello del grande malato d’Italia, il Monte de’ Paschi
Proprio a causa degli accantonamenti a cui il Banco è stato costretto nel 2016, il primo semestre ha visto delle perdite (per 380,17 milioni). La Borsa ha punito il Banco più di altre banche: dal 22 marzo, giorno del primo annuncio della fusione, il settore bancario ha perso in media il 34%, mentre il Banco il 62%, poco più della stessa Bpm (-52%). Proprio le difficoltà del Banco preoccupano i soci contrari in Bpm, istituto che nel frattempo ha prodotto utili (158 milioni nel primo semestre 2016) e arricchito il patrimonio. Il rapporto di concambio tra le azioni delle due banche è stato fissato ai valori del 31 dicembre 2015 ed è considerato dal Patto per la Bpm troppo lontano dalla realtà attuale. Ipotizzare una modifica del valore, a due settimane dall’assemblea, viene considerato da tutti irrealistico, anche perché creerebbe una sollevazione tra Verona, Lodi e Novara.
Il prezzo è però solo uno dei motivi di malcontento. Pesano anche questioni come i ruoli dei manager, le sedi (a Milano la sede legale, a Verona quella amministrativa), la distribuzione degli utili e il piano industriale. Sui manager, per la verità, è realistico aspettarsi un’applicazione del manuale Cencelli. Ma chi è contrario non si fida e ricorda che la nuova banca avrà sì Giuseppe Castagna (attuale consigliere delegato di Bpm) come amministratore delegato. Ma che questi sarà stretto tra due presidenti che verranno dal Banco (Carlo Fratta Pasini presidente del cda, Pier Francesco Saviotti presidente del comitato esecutivo), che avrà anche la maggioranza dei consiglieri (9 a 7) e il direttore generale, Maurizio Faroni. Molto dipenderà da come saranno assegnate le deleghe. C’è poi il problema della “ghettizzazione” dei dipendenti Bpm che finiranno nella Bpm spa. Dopo la fusione ci sarà una holding Banco-Bpm, poi sarà creata una banca-rete che opererà nelle province di Milano, Monza e Brianza, Como, Lecco e Varese e che avrà un cda di cinque persone presieduto da Umberto Ambrosoli. Durerebbe 2-3 anni: in seguito, quando sarà incorporato nella nuova banca, ragionano i critici, le caselle libere per i responsabili nella nuova banca sarebbero tutti occupati. Anche questo andrà verificato, mentre sulla distribuzione degli utili ci sono dei paletti fissati. Ogni dipendente ex Bpm riceverà mille euro all’anno in più di media (non rivalutabili e con base dell’80% uguale per tutti) al posto della percentuale del 5% degli utili che hanno fin qui ricevuto. Si tratta della media degli utili distribuiti negli ultimi cinque anni. Se si fossero presi in considerazione gli ultimi dieci anni, sostengono i critici, la somma sarebbe stata doppia, e ancora maggiore se si fossero presi in considerazione gli ultimi sette o due anni. Le perplessità sono state avanzate anche sul piano industriale. Le previsioni dei vertici di Bpm e Banco sono di avere sinergie lorde a regime, cioè entro il 2018, per 365 milioni di euro annui, di cui euro 290 milioni da minori costi e 75 milioni da maggiori ricavi. Gli oneri di integrazione una-tantum sono stimati in circa il 150% delle sinergie di costo, mentre la creazione di valore stimata è di 1,9 miliardi di euro, al netto degli oneri di integrazione.
I dubbi dei pensionati riguardano sia gli aumenti di volume, sia la vera capacità di tagliare i costi in una struttura, come quella del Banco, altamente stratificata e contrassegnata da campanili con posti nei consigli.
Oltre al prezzo del concambio pesano questioni come i ruoli dei manager, le sedi, la distribuzione degli utili e il piano industriale
Il finale, come detto, è incerto e aperto. Se la fusione non passerà sarà una tragedia? Chi è contrario pensa che un terremoto sarà inevitabile, ma che rappresenterebbe un’operazione-verità: permetterebbe di non far esplodere in seguito un bubbone che diventerebbe maggiore. Una delle speranze dei soci contrari alla fusione è che la banca, una volta trasformata in Spa, possa vedere l’ingresso di un soggetto finanziario. La loro prospettiva non è una battaglia stand alone ma un riassetto bancario che veda Bpm nella veste di capofila o alleata con una banca forte del Nord.
Per il Banco Popolare invece sarebbero guai seri. Dopo Mps, ammesso e concesso che la vicenda senese si risolva entro un anno, il rischio è di avere un altro istituto al capezzale di Banca d’Italia e Bce, non più il terzo ma il quarto per dimensioni in Italia. Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan dovrebbero spiegare alla Bce perché non è riuscita la fusione simbolo della riforma delle banche popolari. Per Renzi tutto questo, e tutti gli eventuali contraccolpi, avverrebbero a poche settimane dal referendum a cui ha finito per legare il suo destino.