È vero, è palese, Eccomi, il nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer pubblicato pochi giorni fa da Guanda, è proprio un romanzo-mondo, è un gigantesco affresco in cui l’autore ha dipinto le nevrosi, le idiosincrasie, le meschinità e le paure della middle class americana, ovvero la borghesia bianca, colta, di origine ebraica, newyorchese, la classe culturalmente dominante negli Stati Uniti. Quella a cui appartiene Jonathan Safran Foer e che sta andando letteralmente in pezzi.
«In questo libro volevo catturare tutti gli aspetti, racchiudere tutta la pienezza della vita dei personaggi», ha dichiarato lo stesso Safran Foer al direttore della Stampa Maurizio Molinari durante la prima presentazione del libro, a Torino, chiosando molto chiaramente: «Io volevo scrivere un libro su tutto». Ed effettivamente in Eccomi c’è tutto: c’è l’amore e c’è il tradimento, c’è la fede e c’è il disincanto, c’è la paura e c’è il coraggio, c’è l’umanità e c’è la tecnologia, c’è l’umorismo e c’è la tragedia, c’è la saggezza e c’è la mediocrità.
Safran Foer ha preso tutti gli ingredienti che formano la vita di un uomo di 40 anni, un bianco intellettuale americano di religione ebraica che è chiaramente l’alter ego di Safran Foer, li ha appoggiati con ordine — un ordine che sembra casuale ma che nasconde un grande lavoro di posizionamento — su un grande tavolo di legno massiccio, pesante e gigantesco come un mattone da 672 pagine e poi ci ha invitato a cena i suoi lettori.
«Io volevo scrivere un libro su tutto». Ed effettivamente in Eccomi c’è tutto: c’è l’amore e c’è il tradimento, c’è la fede e c’è il disincanto, c’è la paura e c’è il coraggio, c’è l’umanità e c’è la tecnologia, c’è l’umorismo e c’è la tragedia, c’è la saggezza e c’è la mediocrità
L’obiettivo non è semplicemente farci vedere cosa rimane di una coppia borghese quando la vita vera le passa sopra come un carro armato. Il suo obiettivo è molto più ambizioso: «io volevo scrivere un libro su tutto», ricordate? Bene, e per farlo è costretto ad azzardare una mossa. Si illude che l’unico ritratto credibile di una società in macerie sia la rappresentazione di quella società pezzo per pezzo, in scala 1 a 1.
Ed eccoci arrivati al Ma, un Ma che va a infilarsi dritto dritto negli ingranaggi narrativi e, a tratti, quasi li blocca. Di cosa si tratta? Si tratta di un peccato di incontinenza. Così come Sam, il figlio del suo alter ego cartaceo, costruisce la sua sinagoga su Other Life dettaglio per dettaglio, Safran Foer costruisce il suo mondo dettaglio su dettaglio, dialogo su dialogo, pezzettino su pezzettino. E l’operazione è talmente immensa, che quella che viene fuori e che ci troviamo a leggere, per buona parte è una mappa in scala 1 a 1 del mondo. E lo è sia a livello di rappresentazione drammatica, come ad esempio le pagine e pagine di dialoghi non mediati, con battute talmente inutili e mediocri da esserlo persino per i protagonisti, che infatti se lo rinfacciano.
È un peccato. Potremmo definirlo il peccato del cartografo incontinente, che ossessionato dalla volontà di avere la mappa perfetta dell’Impero, non si rende conto di stare producendo una mappa che dell’Impero ha le esatte dimensioni: 1 a 1.
È un peccato. Potremmo definirlo il peccato del cartografo incontinente, che ossessionato dalla volontà di avere la mappa perfetta dell’Impero, non si rende conto di stare producendo una mappa che dell’Impero ha le esatte dimensioni: 1 a 1.
Jorge Luis Borges, in un frammento intitolato Del rigore nella scienza, pubblicato nell’ultima parte della raccolta di poesia L’artefice, descrive molto bene questa situazione paradossale, insieme alla vertigine che questa provoca, come tutti i paradossi. Parla di un Impero in cui «l’Arte della Cartografia raggiunse tale Perfezione che la mappa di una sola Provincia occupava un’intera Città, e la mappa dell’Impero un’intera Provincia. Col tempo, queste Mappe Smisurate non soddisfecero più e i Collegi dei Cartografi crearono una Mappa dell’Impero che aveva la grandezza stessa dell’Impero e con esso coincideva esattamente. Meno Dedite allo Studio della Cartografia, le Generazioni Successive capirono che quella immensa Mappa era Inutile e non senza Empietà l’abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei deserti dell’Ovest restano ancora lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti; nell’intero Paese non vi sono altre reliquie delle Discipline Geografiche».
E quindi, qual è la morale della favola? Che per raccontare tutto, forse non si deve raccontare proprio “tutto”. Che la rappresentazione della realtà non deve essere sovrapponibile perfettamente alla realtà, perché il rischio è che, come purtroppo capita in alcune lunghe parti di questo libro, a furia di rappresentare 1 a 1 la mediocrità, si finisce col rappresentare la mediocrità mettendola in scena così com’è.
E la mediocrità, nuda e cruda, è mediocre. Invece, come dimostra tra l’altro lo stesso Safran Foer nelle parti in cui non si limita a inseguire la rappresentazione pedissequa la realtà, la Letteratura è grande Letteratura quando riesce ad essere quella cosa che simula il mondo senza essere il mondo. È quella cosa che simula la nostra mediocrità, che la distilla, riuscendo nel miracolo di trasformare la mediocrità in bellezza.