Elon Musk & co: la corsa alle stelle dei miliardari è solo una balla spaziale

La sfida che una volta era delle grandi potenze, oggi è dei grandi ricconi e se all'epoca era stato il volano per la ricerca di nuove tecnologie di cui oggi godiamo tutti, questa volta sembra essere soltanto un giochetto per bambini viziati

C’è chi la paragona alla colonizzazione ferroviaria del West americano, quella che, in pieno Ottocento, trasformò un continente in una nazione e che fu l’avvio della grande storia economica degli Stati Uniti d’America, ma la corsa in cui si sono lanciati quattro degli uomini più ricchi del mondo ha poco a che spartire con quelle storie da C’era una volta il West. E il fatto che al posto del deserto e dei covoni di paglia ci siano orbite e pianeti c’entra ben poco.

I loro nomi ormai li conosciamo. Sono gli Elon Musk, i Jeff Bezos, i Paul Allen e i Richard Branson, e la gara che da qualche anno hanno intrapreso uno contro l’altro è la gara più novecentesca di tutte, è la corsa alla conquista dello Spazio. Quella che una volta era prerogativa degli stati — Stati Uniti e Unione Sovietica, sopra a tutti — ora è diventato campo da gioco di privati. Privati ricchissimi, chiaro, fondatori di piccoli imperi che portano nomi che sono entrati nella nostra quotidianità — Paypal, Amazon, Microsoft, Virgin — e che ora vogliono entrare nella Storia facendosi portatori di una istanza che — dicono loro — dovrebbe essere di tutta l’Umanità, ma che in fondo, più che una importante battaglia di avanguardia, sembra un giochetto per bambini viziati. Potevamo capirlo al’epoca dei Kruscev e dei Nixon, quando la conquista dello Spazio era la strada che avrebbe portato a tutti noi Internet e a mille altre innovazioni tecnologiche. Qui invece si parla di turismo, dei Gran Tour dei nuovi ricchi di domani.

C’è chi, come Musk, vorrebbe rendere di massa i turismo spaziale e la colonizzazione di Marte. C’è chi, come tutti gli altri, si accontenterebbe di portarci dei gigaricconi, su nello Spazio, a fare i turisti. Tutti sbandierano speranze di business e di grandi affari, ma di fatto stanno investendo centinaia di miliardi di dollari nella sfida più effimera che l’Umanità abbia mai intrapreso.

Sì, perché l’idea di un futuro nello Spazio per l’Umanità era un’idea che poteva affascinare i nostri padri, ma che già nei secondi anni Settanta aveva già prestato il fianco e si era già sgonfiata. Sia nella realtà, che dopo lo sbarco sulla Luna e la fine della guerra fredda ha visto rallentare vistosamente gli investimenti di USA e URSS, sia nel mondo della fantasia, in cui le visioni degli Isaac Asimov e degli Arthur C. Clarke, orientate verso il Fuori e il Lontano, hanno lasciato il posto alle visioni dei Philip K. Dick e dei James G. Ballard, orientate al contrario al Dentro e il Vicino.

La sfida che si sono lanciati uno contro l’altro i quattro multimiliardari è una sfida già scaduta, una gara inutile che, a dispetto di quel che credono e che sbandierano i protagonisti, non riguarda in nessun modo il progresso dell’Umanità. L’Umanità non ha un futuro nello Spazio. Al massimo alcuni uomini — pochissimi — lo avranno.

L’Umanità non sono i duecento turisti che hanno prepagato una gita nello Spazio alla modica cifra di 250mila dollari. L’Umanità sono i sette miliardi di individui che si spartiscono le poche risorse disponibili su questo minuscolo angolino di Universo. E la probabilità che nel futuro questi sette miliardi di individui saranno su Marte o in qualche altro posto là fuori è molto bassa. A doverci scommettere conviene mettere tutto sul fatto che saranno proprio dove sono ora, a lottare per sopravvivere.

Quella a cui stiamo assistendo, insomma, non è una gara per un nuovo business, né per dare un futuro di speranza al genere umano. È una gara tra giganteschi ego per vedere chi ce l’ha più lungo. E noi, se stiamo qua a tifare con la speranza che questi quattro cavalieri del business stiano lavorando per migliorare il futuro dei nostri figli ci sbagliamo di grosso. Perché se questa fosse una partita di calcio e nel campo si fronteggiassero loro, noi non saremmo per niente gli spettatori, né gli steward, né i bigliettai e neppure i bagarini. Noi, in quella metafora, saremmo i barboni che languono per terra fuori dallo stadio e che, molto prima di pensare a chi vincerà la partita, devono inventarsi un modo per arrivare all’indomani.

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