Negli ultimi tempi, in Germania, c’è una polemica molto forte contro la Red Bull e la sua aggressiva strategia di marketing applicata al calcio. Nella Bundesliga, la massima serie tedesca, gioca la squadra di calcio di Lipsia, targata appunto Red Bull, tanto da portarne il nome così come accade in altre realtà come in Austria con il Salisburgo. La protesta, che ha assunto la forma del movimento “Nein Zu RB” (No alla Red Bull) nasce dal fatto che sette anni fa questo club nemmeno esisteva. La strategia della casa austriaca applicata allo sport è semplice: subentra ad un team già esistente e ne cancella ogni traccia o lo crea ex novo, investendo forti somme per vincere subito, che si tratti del calcio o della Formula Uno, dove l’azienda di Dietrich Mateschitz ha applicato entrambe le modalità: da una parte fondando la scuderia Red Bull, dall’altra acquistando la vecchia Minardi e cambiandone il nome con la traduzione italiana del proprio marchio “Toro Rosso”. Nel calcio, nel 2005 è arrivato l’acquisto prima dei New York Metrostars, anche qui rinominati con il nome del brand, quindi l’acquisizione del Salisburgo. Con una strategia molto più aggressiva: cambio di nome, ma anche di colori e nuovo stadio. Mateschitz è stato chiaro fin da subito: dimenticate la vecchia squadra e i trofei vinti. E a quei tifosi che contestavano l’assenza dello storico colore viola dalle maglie, il numero uno dell’azienda ha risposto facendo trovare loro sui seggiolini dello stadio gli occhialini per il cinema in 3D, con le lenti guarda un po’ di colore viola. In Germania, alcuni tifosi come quelli del Borussia Dortmund sono arrivati a disertare le trasferte a Lipsia, pur di ostacolare il progetto Red Bull in versione tedesca. Mateschitz averbbe voluto in realtà comprare anni fa la Dinamo Dresda, poi il Sachsen: in entrambi i casi, i tifosi non hanno gradito. Quindi acquista il Markranstadt, club di quinta serie. Poi lo sposta a Lipsia, ne cambia colori e nome, quindi arriva il nuovo stadio e lo sbarco in Bundesliga.
No alla Red Bull dunque: no alla grande azienda che irrompe nel pallone creando club senza storia. Spulciando il web e soprattutto Twitter, ogni tanto capita di leggere la stessa accusa – “Siete senza storia” – rivolta al Sassuolo, soprattutto quando perde male contro gli “amici” della Juventus. Il club neroverde è nato negli anni Venti del Novecento ed era destinato come molti altri di provincia ad un’esistenza che poteva trovare il suo massimo grado in una dignitosissima Serie C. Fino a quando non arriva la grande azienda che spende e spande, porta la squadra prima in B poi addirittura in A fino all’Europa League, infila il proprio brand ovunque può e come ogni industria che si rispetti arriva anche a delocalizzare parte dell’attività: Sassuolo è in provincia di Modena, ma gioca in casa a Reggio Emilia, in uno stadio con il nome dell’azienda proprietaria, il Mapei Stadium.
Ai tifosi avversari che non ragionano per scherno ma convintamente, non viene mai in mente che chi porta soldi, competenze e idee possa aiutare a costruirla, la storia. E quella del Sassuolo è certamente segnata dalla presenza di Mapei. Una presenza che ha nel tempo assicurato al club investimenti mirati, lavoro sul territorio e management votato al calcio come azienda. E in dieci anni, il Sassuolo è diventato il Sassuolo. Subendo la stessa evoluzione delle piastrelle, di cui la cittadina emiliana è cardine dell’omonimo distretto. Se prima si fissavano con calce e cemento, si è poi passati alle colle e agli adesivi industriale di cui Mapei, azienda lombarda, è diventata leader scendendo a fare affari in Emilia. E portando i propri rappresentanti a lavorare porta a porta, fabbrica per fabbrica, a sondare il territorio per conoscerlo, mapparlo, dominarlo. Una conoscenza che a Giorgio Squinzi, storico patron di Mapei, è servita quando ha lasciato il ciclismo (dove per anni ha sponsorizzato una squadra d’elite) per sbarcare nel calcio. Non è un caso che il presidente del club non sia lui ma Carlo Rossi, titolare della Mapei di Sassuolo, o che la dirigenza abbia ospitato per delle stagioni uomini di aziende poi rimasti legati al club come piccoli sponsor. E se prima erano le piastrelle, poi sono diventati i giocatori. E le fabbriche o i negozi diventano i club di provincia, da battere per scovare i giocatori più adatti alla categoria.
Ai tifosi avversari che non ragionano per scherno ma convintamente, non viene mai in mente che chi porta soldi, competenze e idee possa aiutare a costruirla, la storia. E quella del Sassuolo è certamente segnata dalla presenza di Mapei. Una presenza che ha nel tempo assicurato al club investimenti mirati, lavoro sul territorio e management votato al calcio come azienda. E in dieci anni, il Sassuolo è diventato il Sassuolo.
Uno di questi è Francesco Magnanelli, che dopo le giovanili nel Chievo e un passaggio nella Fiorentina si ritrova nella Sangiovannese, in C. Nel 2005 lo chiama il Saasuolo, che se lo assicura per 120mila euro. Oggi Magnanelli è il capitano della squadra che debutta in Europa League, contro l’Athletic Bilbao. In lista Uefa c’è anche Alberto Pomini, che arrivò l’anno prima a titolo gratuito dal San Marino. Entrambi sono arrivati in B nel 2008 con alla guida del club Massimiliano Allegri, arrivato dopo un pellegrinaggio tra Aglianese, Grosseto, Spal e Lecco. Su di lui in pochi avrebbero scommesso, dopo gli esoneri e il carattere che ne aveva ad esempio causato l’interruzione del rapporto con la squadra lombarda dopo poche settimane dall’ingaggio. Così come forse in pochi avrebbero scommesso su Eusebio Di Francesco, tecnico della prima storia promozione in A: gli esoneri a Lanciano e Lecce, con in mezzo una promozione in B con il Pescara, sembravano averne segnato l’inizio della carriera. A Sassuolo, DI Francesco ha potuto sviluppare il proprio sistema di gioco, basandolo su un 4-3-3 fatto di velocità, con un centrocampista come Magnanelli a fare da raccordo nelle due fasi di gioco, due punte veloci e tecniche in grado di lavorare ai fianchi le difese avversarie e una centrale a farsi trovare al posto giusto. Perché se la promozione in A ha dato al club la svolta “manageriale”, questa è stata possibile grazie ad una base sviluppata nel tempo: battere i campi di provincia, osservare il mondo e tutto ciò che accade. Negli anni oltre a Magnanelli e Pomini sono arrivati quasi sempre in neroverde i migliori della categoria nella quale si andava a pescare: nel 2009 Diego Falcinelli dalle giovanili dell’Inter, nel 2010 Leonardo Pavoletti dalla Juve Stabia, nel 2012 la promozione di Domenico Berardi (segnalato a un osservatore neroverde dopo che venne visto giocare a una partita di calcetto) dalla Primavera, nel 2013 Nicola Sansone dal Parma e Simone Zaza a metà con la Juventus, nel 2014 Sime Vrsalijko dal Genoa e Andrea Consigli dall’Atalanta, lo scorso anno Sensi e Mazzitelli da Cesena e Roma (ma lasciati giocare in B), più Matteo Politano in prestito e riscattato quest’anno dalla Roma. Nell’ultima finestra di mercato è arrivato inoltre il riscatto di Duncan dalla Sampdoria per 6 milioni (altro bel giovane, scuola Inter e finito nel giogo delle comproprietà come molti altri di belle speranze), oltre a circa 2 milioni spesi ciascuno per Antonino Ragusa e Pietro Iemmello, attaccante che a Foggia a fatto vedere meraviglie ma ignorato dalla A fino ad oggi (era finito allo Spezia, in B).
Domenico Berardi: non male il ragazzo.
Tutti investimenti assicurati da Mapei, che è sponsor e ammortizzatore economico della squadra. Il bilancio 2013 del Sassuolo, anno della storica promozione in Serie A, ha visto il club incamerare 20 milioni di euro, di cui 14 dall’azienda di Squinzi. La Mapei viene usata per assicurare l’equilibrio economico del club, oltre che per le fidejussioni per la campagna acquisti. E sul calciomercato (e soprattutto sui suoi effetti), si innesta un’altra buona fetta del vecchio modello gestionale del Sassuolo. Investimenti da una parte, plusvalenze dall’altra. Perché il talento diventa metodo per raggiungere risultati sul campo e in quei bilanci che in Italia dipendono sempre tanto dalla tv e – per forza di cose qui in Emilia – dall’azienda proprietaria. Dove quest’ultima sfrutta il beneficio contabile per aggiustare il tiro in vista dell’Europa. Il consuntivo 2015 spiega bene tutto. Nella scorsa stagione, con la cessione a titolo definitivo di Zaza alla Juve, il Sassuolo ha incamerato 18 milioni di euro, di cui circa 14 di plusvalenza, ai quali vanno sommati i 3,7 per la cessione di Pavoletti al Genoa, gli 1,3 di Zappa sempre alla Juve e 1 per Kurtic all’Atalanta: totale 20,8 milioni di plusvalenze. Un risultato record per le casse del club, dopo i 7,5 milioni dell’anno precedente e i 9 del 2013, che si affianca all’altro grande risultato dei 25 milioni dai diritti tv (più che raddoppiati dopo i 10 milioni del 2010). E il bilancio 2016 registrerà altre plusvalenze, per le cessioni di Sansone (13 milioni, al Villareal) e Vrsalijko (16 milioni, all’Atletico Madrid). In attesa che la Juventus eserciti l’opzione per l’acquisto per Berardi, in scadenza quest’anno.
Un risultato, come detto, che ha permesso a Mapei di fare un passo indietro significativo alla voce ricavi commerciali, per non incorrere in una probabile sanzione della Uefa. Quando il bilancio è stato chiuso, al 31 dicembre 2015, per il club poteva profilarsi una storica partecipazione all’Europa League. Ecco perché la sponsorizzazione di Mapei sulla maglia neroverde risulta più bassa dell’anno precedente: 18 milioni contro 22, valore quest’ultimo che rendeva il kit del Sassuolo il più ricco della Serie A 2015/16, più della Juve di Fiat, per dire. Ma la legge del Fair Play Finanziario su questo punto è chiara: le sponsorizzazioni legate alla proprietà non devono superare il 30% dei ricavi totali.
Un aggiustamento necessario, per un’avventura europea che porterà altri soldi nelle casse emiliane. Soldi che permetteranno al club di provare ad essere più autosufficiente, dopo che nel 2014 il rosso di 16 milioni (dovuto al raddoppio dei costi operativi) era stato interamente ripianato dall’azienda. Le prossime mosse in questo senso sono rappresentate dallo sfruttamento sempre più intenso del Mapei Stadium, rinominato così dopo averlo preso prima in affitto e quindi dopo l’acquisto dell’impianto nel 2014 per 3,75 milioni: un investimento deciso per rilanciare l’esperimento voluto nei primi anni Novanta da Franco Dal Cin, numero uno della Reggiana che riuscì a raccogliere i capitali necessari, anche grazie ad abbonamenti decennali da parte dei tifosi, per il primo impianto privato in Italia. L’esperimento sarà però troppo grande e la nave granata naufragherà nel crack finanziario.
Lo stadio se lo aggiudicò Squinzi contro un altro pretendente, la Football Properties capeggiata dal presidente della Reggiana, Alessandro Barilli, e appoggiato dal Comune e imprenditori locali. La cifra fu però troppo alta e la delocalizzazione del club poteva procedere a passi spediti. Lo stesso anno è arrivato come amministrare delegato Giovanni Carnevali, già amministratore unico di Master Group Sport: la stampa locale lesse l’episodio come “milanesizzazione” del Sassuolo. Uno dei suoi compiti sarà quello di cercare l’avvicinamento con la Reggiana, appena acquistata da Mike Piazza (che lo scorso anno voleva il Parma). In Comune, qualche settimana fa, per la presentazione del Trofeo Tim giocato proprio a Reggio, Carnevali è apparso sorridente accanto a Maurizio Franzone, direttore generale granata. La Reggiana, dopo aver perso l’opzione d’acquisto dello stadio, paga l’affitto a Mapei: in città si dice che il nuovo contratto sia molto migliore di quello firmato in precedenza. La diplomazia conta, i soldi anche. E qui un nuovo caso Red Bull non lo vuole nessuno.