Alec Ross ha poco più di quarant’anni e l’aria di chi ne ha già viste un bel po’. Per quattro anni è stato consigliere del dipartimento di Stato per l’Innovazione con Hillary Clinton, insegna alla Columbia University e alla John Hopkins University. Un curriculum che, qui da noi, sembra più quello di settantenne. «Quando vado nella Silicon Valley sono sempre il più vecchio, invece quando vengo in Italia sono sempre il più giovane. Mi sa che avete un problema», », dice di fronte al folto pubblico del Festivaletteratura di Mantova strappando applausi di rabbia.
Dopo la sua esperienza nelle stanze del potere, a fianco di Hillary e di Obama, Ross ha scritto un libro in cui ha provato a segnare la strada dell’innovazione per i prossimi vent’anni. «Vent’anni fa avrei voluto leggere un libro capace di prevedere la rivoluzione di internet. Oggi ho provato a scriverlo io», si legge nel risvolto di copertina, ed effettivamente ne Il nostro futuro c’è dentro una visione. Dai robot al genoma, dai Bitcoin ai codici fino ai big data e alla geografia del futuro.
«Mi sforzo di avere un pensiero e un approccio che non è né utopico né distopico», ci racconta subito dopo l’evento, quando, davanti a una birra al bar del Laso, gli chiediamo se non abbia paura di essere troppo “tech-ottimista”. «Credo che siano entrambi atteggiamenti ingenui e naif. Certamente, la maggior parte della gente che parla di futuro ne parla sempre in questi termini. O pensano che presto vivremo 150 anni felici e contenti, e si dichiarano ottimisti, oppure sono di quelli che chiudono gli occhi, stringono i pugni e se la fanno tra le gambe, e si dichiarano pessimisti. Per i primi il futuro è Star Trek, per i secondi è Mad Max».
E chi ha ragione?
Si sbagliano entrambi. Io credo che la verità sia invece sempre più o meno in mezzo, perché sono convinto che il futuro possa essere più bello del presente, ma so anche molto bene che ci sono delle sfide da affrontare perché accada e che, proprio per questo, in questo momento dobbiamo cercare di capire come la tecnologia può impattare sulle nostre vite, per sapere come può migliorare il nostro futuro, ma anche come lo può mettere in pericolo. Se mi chiedi di scegliere tra le due metà del bicchiere io sono quello che ti dice che è mezzo pieno, quindi sono un ottimista. Ma non sono un ingenuo, non credo nelle utopie.
Credi che avremo le risorse energetiche per realizzare quello che siamo in grado di progettare per il futuro?
Sì, assolutamente. La materia prima dell’età pre industriale era la terra. Quella dell’età industriale era il ferro. Quella dell’età informatica sono i dati. Fino alla rivoluzione industriale chi controllava la terra aveva il potere. Dopo il potere è passato a chi controllava l’accesso alle risorse naturali e, quindi, alla produzione. L’energia che servirà alle industrie del futuro saranno i dati, i cosiddetti big data. Pensa, il novanta per cento dei dati che l’uomo ha creato in tutta la sua storia sono stati creati negli ultimi tre anni. Se fai la somma di tutte le informazioni che abbiamo prodotto tra i dipinti rupestri nelle grotte francesi del paleolitico fino al 2003, ora li produciamo nel giro di tre giorni. Quindi, questi dati sono il vero petrolio per la creazione del business del futuro.
Le quantità di cui parli sono impressionanti, abbiamo a disposizione tutto questo spazio?
Sì, credo che abbiamo spazio. Ma c’è differenza tra avere spazio e avere gli strumenti. In ogni caso, sì, abbiamo strumenti che ci permettono di creare spazio, quindi avremo lo spazio che ci serve per accumulare tutti quei dati.
Che rapporto c’è tra questa nuova generazione di industrie dei big data e le vecchie strutture di potere?
È una domanda complessa. Prima di tutto permettimi una precisazione: quando si parla di big data tutti pensano subito a Google e Facebook. Ma questi due colossi usano i big data soltanto per vendere pubblicità. Io credo che sia più interessante e importante studiare come i big data verranno usati per altri scopi, la medicina e le scienze per esempio. O ancora, in campo legale, in agricoltura. È molto più interessante questo che sapere come Facebook cerca di capire se a me piacciono le mutande rosse o le mutande blu. Tornando alla tua domanda, il rapporto tra il vecchio potere e questi nuovi attori dell’economia mondiale in questo momento è molto difficile.
Perché?
Perché parlano lingue diverse. E questo il problema e devono risolverlo. Perché loro devono comunicare, è importante che lo facciano perché fintanto che parlano lingue diverse non avranno un rapporto.
E qual è il problema quindi?
Una parte del problema è che le imprese della Silicon Valley avrebbero bisogno nei propri staff di avere più persone con capacità governative, burocratiche, che abbiano esperienza di quel mondo. Mentre i burocrati con la camicia bianca e la cravatta rossa, che non hanno mai lavorato un solo minuto nel business, ma che hanno trent’anni di esperienza al governo, hanno bisogno di gente al loro fianco che capisce quel mondo e che fa le cose. Insomma, dovrebbero mischiarsi un pochino di più.
Credi che il potere sempre più grande che queste imprese multinazionali stanno accumulando possa mettere in discussione i mondo degli stati nazione?
Stiamo ancora vivendo nel contesto politico strutturale che fu creato nel 1648, col trattato di Westfalia. Nel 2016 abbiamo la stessa struttura di stati nazioni. La globalizzazione e le imprese multinazionali, per loro stessa natura, non rispettano né riconoscono queste distanze, questi confini nazionali. Per rispondere alla tua domanda direi che quello che stiamo a cui stiamo assistendo è quella struttura messa a dura prova, sotto tensione. Se ci pensi stiamo assistendo a un ritorno dei nazionalismi e delle autorità centrali, Cina, Russia, anche in Europa, la Brexit la posizionerei tra queste dinamiche.
È la risposta della struttura?
Sì, esattamente. Ma quel che vedo non è l’evaporazione della struttura di stati nazionali decisa a Westfalia, bensì è la messa in difficoltà di quel sistema da parte della globalizzazione. Se vuoi è il bicchiere mezzo pieno di cui parlavamo prima, perché a vederla possiamo intuirne le ricadute positive. Se vogliamo essere onesti, negli ultimi 25 anni, circa un miliardo di persone è passato da una classe sociale bassa a una media, in paesi come l’India o in Cina. Quindi, se pensi che la vita di una persona in Cina valga come la vita di una persona in Francia, dovremmo esserne contenti.
Quale sarà il prossimo passo?
Il prossimo passo della globalizzazione sarà far crescere il livello di vita nell’Africa sub sahariana. E se pensi, come credo che pensi, che la vita di una persona nera nata in Kenia valga esattamente come quella di una bianca nata a Washington, be’, anche in questo caso c’è da essere ottimisti sugli effetti della globalizzazione. Ma torniamo alla questione della risposta della struttura, sì, sono convinto che il nazionalismo e il centralismo siano reazioni della struttura. Come possiamo vedere in questa corsa presidenziale negli Stati Uniti, Trump sta attaccando costantemente il Messico, parla sempre di frontiere e di muri da alzare, è il nazionalismo che cresce.
E per quanto riguarda la questione dei dati personali?
Per una persona media, in realtà, i propri dati personali non valgono così tanto. Se credi di poter far valere economicamente i tuoi dati personali devi aver fumato una pipa d’oppio. Quel modello non funziona. Il capitalismo, quello tradizionale, è stato guidato dalla cooperazione, è su quello che produce un’economia. Ma non vedo modelli cooperativi nella commercializzazione dei dati personali. Per quanto riguarda la difesa della privacy, invece, è un discorso che ha un valore, ma credo che per molti versi la difesa totale richieda delle scelte. Non ti va bene che Google accumuli i tuoi dati personali? Non usare Google. Nessuno ti obbliga. Il tema della privacy è decisivo, io credo, ma è proprio per questo che io ne parlerei nei termini di trasparenza e consenso. E l’uso degli strumenti, da Google a Facebook a mille altre app e servizi, in qualche modo è già una applicazione del consenso.
Come possiamo proteggere la nostra privacy?
In realtà non importa come cerchiamo di proteggerci, un sacco dei nostri dati prendono il volo senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Proprio oggi, mentre io e te siamo seduti al Bar Lasagna di Mantova, al mondo ci sono 16 miliardi di device. Bene, tra 4 anni ce ne saranno 40 miliardi. Nei prossimi quattro anni, quindi, non importa cosa faremo individualmente, ma possiamo già essere certi che avremo meno privacy di oggi. Ci sono tanti modi di proteggere il proprio anonimato e i propri dati online, ma credo che il vero e unico modo, sul lungo termine, per proteggere totalmente i propri dati sia una sorta di eremitaggio. Se credi che i tuoi dati valgano il prezzo da pagare per essere un eremita analogico in un mondo digitale, puoi farlo. Ma non so se è la mossa giusta.
Cambiamo discorso, in un mondo automatizzato che fine fa il lavoro? E che fine fa il capitalismo se togli al suo centro il lavoro?
Non sono d’accordo col fatto che il lavoro stia scomparendo. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione ora è al 4 per cento. È vero che in Europa questo tasso cresce, ma l’Europa è una piccola parte del mondo intero. A metà dell’Ottocento, un lavoratore su due faceva l’agricoltore. Il 50 per cento. Nel 1910 era uno su tre. Lì arrivò l’automazione e la gente si preoccupò del fatto che quel terzo di persone avrebbero perso il lavoro e che un’intera società, quella contadina, con alle spalle centinaia di anni di storia, sarebbe potuta sparire. Eppure, adesso che quel tasso è diventato uno su 50 e che produciamo molto più cibo e molto migliore possiamo dire che quelle paure erano eccessive. Ci siamo adattati e siamo sopravvissuti. E conta una cosa, quella rivoluzione era molto più aggressiva, cambiava molto più radicalmente il mondo di quella che viviamo oggi. E, ancora, oggi possiamo immaginare sia i lavori che perderemo sia quelli che guadagneremo. In ogni caso credo che abbiamo ancora almeno una decina d’anni, perché i robot che abbiamo visto nei film degli anni Ottanta saranno realtà tra un po’.
E cosa succederà?
Certamente la diffusione dei robot diminuirà, forse anche drasticamente, il lavoro manuale e ripetitivo, ma aumenterà il lavoro creativo e cognitivo. Ho letto tantissimo su questo argomento e credo che il pericolo più grosso lo vivremo nel settore dei trasporti, visto che negli Stati Uniti il lavoro più diffuso tra gli uomini è proprio l’autista, dai tir ai taxi, dal trasporto alla distribuzione. Quello è il settore che mi spaventa di più, ma non credo che abbiamo molto di cui preoccuparci.
La tecnologia è uno strumento per rendere gli uomini sempre più uguali o un’arma per aumentare le differenze di classe?
Ancora una volta, credo che la verità sia nel mezzo. Il benessere non è soltanto a livello economico, si vive di più, si hanno informazioni migliori, si mangia meglio. Questo è benessere, e possiamo dire che l’innovazione e la tecnologia stiano contribuendo a aumentarlo.
Nello stesso tempo, però, è innegabile che la differenza tra i più ricchi e i più poveri si sta facendo più ampia…
Sì, credo che questa frase sia vera, ma che si debba contestualizzarla. Ti faccio un esempio: quando ero giovane, avere la televisione a colori e con dodici canali in casa era sintomo di ricchezza. Adesso capita che hai un televisore al plasma da 50 pollici e trecento canali, ma in realtà sei povero.
Che cosa vuol dire?
Che essere povero nel 1976 ed essere povero nel 2016 sono due cose diverse. Tant’è che, se ci pensi, ora la classe sociale che tende a non guardare più la televisione, magari non avendola nemmeno a casa, è la classe borghese, ricca e colta.
Cosa ne deduciamo?
Che il televisore è un segnale di aumento di benessere della gente, ma non è affatto detto che corrisponda a un aumento di ricchezza. Quindi che non è detto che una polarizzazione della ricchezza comporti un abbassamento del benessere. Se hai un foglio te lo faccio vedere con uno schema…
Nel primo schema, la linea tratteggiata rappresenta i ricchi, quella continua i poveri. Lo spread aumenta, ma entrambi aumentano in fatto di benessere. Nel secondo schema, invece, lo spread aumenta molto di più che nel primo caso e crolla anche il benessere dei più poveri. Il primo schema rappresenta un mondo in cui vince Hillary Clinton, il secondo temo che sia lo schema del mondo se dovesse vincere Donald Trump. Io credo che, per fortuna, noi occidentali viviamo nel primo mondo. Perché il secondo mondo è quello ingiusto e polarizzato dove cova il conflitto sociale, dove nascono le rivoluzioni e le guerre civili. Quel secondo schema è l’Egitto, la Siria, l’Iraq e via dicndo.
Nel secondo schema quindi c’è il conflitto, conflitto che invece nel primo tende a sparire. Ma se il conflitto è sempre stato il motore della storia, non temi che in un mondo senza conflitto le cose non cambieranno mai e quindi i ricchi saranno sempre più ricchi e i poveri saranno semplicemente sempre più abituati ad essere poveri?
Vedremo, non sono d’accordo. Perché quel primo schema, negli Stati Uniti di Obama, avrà anche significato un aumento della ricchezza per i più ricchi, ma ha significato anche un innalzamento notevole delle condizioni dei più poveri. Quindi, dal mio punto di vista, questo è un miglioramento della società e quindi quello è lo schema che dobbiamo perseguire.
L’ultima domanda è per forza sulle elezioni…
Eh eh, tutti voi giornalisti italiani, come ultima domanda mi fate sempre questa… Allora, prima di tutto sì, è possibile che vinca Trump, naturalmente, ma credo che vincerà Hillary. Anche qui, però, ci sono delle nuance. Sono sicuro che se l’elezione fosse domani vincerebbe a mani basse Hillary. Ma le elezioni non sono domani, sono tra due mesi, quindi è più complicato di così. Credo che in ogni caso vincerà Hillary, ma se dovesse vincere Trump il mondo che ci ritroveremo sarà quello del secondo schema di cui parlavamo prima. In questo caso non sarà bello da vedere. Io credo che negli Stati Uniti si stia aggirando un incubo. Un incubo con un nome e un cognome: Donald Trump.
Nel caso vincesse Trump non credi che la struttura possa mettergli i bastoni tra le ruote?
Un po’ forse lo farà, ma c’è un problema: il nostro assetto di potere, negli Stati Uniti, dà al Presidente un potere esecutivo fortissimo. Certo, nel caso vincesse Trump, la struttura farebbe in modo di tamponare, ma ricordati che il Presidente degli Stati Uniti, a livello di potere esecutivo, è molto più vicino a Putin che a Renzi, Cameron o Hollande.