Una figlia, normalmente alle 9 di sera alla fine di una giornata lunga e pesante, chiede al malcapitato genitore di comprarle l’ennesima bambola. Si sente dire di no, ne ha già dieci, quando va bene gioca con due, a cui più che a cambiare gli abiti si diverte a amputare gli arti.
Benissimo, sappiamo che piega prenderà la discussione. La creatura insisterà, con la dispotica innata tenacia di cui solo i bambini dispongono, che certamente non si fermano di fronte a un timido no. Che siano la stanchezza, il senso di colpa genitoriale o le doti dialettiche della creatura, il genitore alla fine cede, ma con riserva: la bambola no, vada per un puzzle, illudendosi di aver tenuto il punto e anche di contribuire allo sviluppo dell’intelletto della creatura. Ovviamente la piccoletta accetta di buon grado, pronta l’indomani a partire nuovamente all’attacco per ottenere ciò che veramente la interessa: la bambola.
Sedata la creatura nel letto, l’eroico genitore si accascia a quel punto sul divano, guardando l’altro co-artefice della creatura con una sorta di autocompiacimento e un ghigno di soddisfazione dipinto sul volto – «Visto come si allevano i figli?»- fiero di aver tenuto il punto perché la bambola non è stata comprata.
Già, resta però un dato: da un parte se la fanciulla non ha ottenuto quello che voleva, ha pur sempre ottenuto qualcosa a cui fino a cinque minuti prima non aveva neppure diritto. Qualcosa che ancora peraltro non la soddisfa pienamente, ma 1 è sempre meglio di 0, mentre dall’altra il genitore crede di non avere concesso e di avere saputo tenere il punto.
Se si riflette, il convincimento del genitore è distorto: non è perché non ha dato alla figlia ciò che essa chiedeva che non ha concesso. Ha comunque concesso qualcosa. Che cosa aveva la bimba prima di iniziare la trattativa? Nulla. A che cosa aveva diritto? A nulla. Partiva da zero. Il genitore ha concesso, eccome!
Non è perché stiamo dando meno di ciò che ci stavano chiedendo che non stiamo concedendo
Attraverso un meccanismo psicologico messo magistralmente in luce da Cialdini, con il chiedere la creatura ha sapientemente generato un senso di debito nel genitore, il quale ha pensato di non essere caduto nella trappola, dando meno di quello che gli veniva chiesto. Non è perché stiamo dando meno di ciò che ci stavano chiedendo che non stiamo concedendo.
In realtà il genitore ha comunque dato qualcosa. Avrà un esborso di denaro immotivato e non previsto, e probabilmente non solo non avrà sedato la “fame di regali” della dolce creatura, ma le avrà ingenerato la certezza che a chiedere qualcosa comunque si ottiene. Cosa verissima.
Da una parte quindi assistiamo a una perdita di denaro per il genitore e dall’altra all’insoddisfazione e avidità della figlia che ancora deve conquistare la bambola. Se siamo noi i primi a non attribuire valore alle cose che diamo, perché dovrebbero farlo gli altri?
Il meccanismo familiare ha le stesse dinamiche nel contesto lavorativo. Un amico qualche giorno fa infastidito mi ha detto di non aver concesso a un cliente lo sconto richiestogli, ma di avergli allungato la garanzia. Il quale cliente, incassata la garanzia ma comunque non appagato, pare abbia comunque insistito per uno sconto. Giustamente: se noi siamo i primi a non dare valore alle cose che diamo, perché dovrebbero farlo gli altri?
Come evitare di cadere in questa trappola? Semplicemente chiedendo qualche cosa in cambio senza perdere di vista il proprio punto di ingresso. Per seguire l’esempio della figlia: il nostro punto di ingresso è di non regalarle nulla, ha già di tutto. Possiamo eccezionalmente pensare a un puzzle, lo riteniamo un buon allenamento per la logica. Quindi le diremo che in cambio del nostro spostamento da 0 doni (punto di ingresso) al puzzle (punto d’uscita) dovrà aiutarci a preparare la tavola tutte le sere.
Lo stesso con il nostro cliente: lo sconto in cambio del raddoppio dell’ordine, e se mi fa pubblicità potrei pensare di concedere un allungamento della garanzia di 3 mesi.Nessuno dice naturalmente di non regalare: l’importante è essere consapevoli e non lamentarsi se poi i figli a 18 anni vorranno, come se fosse dovuta, l’automobile!