Uno dei rischi che si corrono quando si rivedono gli ex, è scoprire che il loro ricordo era più conturbante di quanto essi siano in effetti nella realtà. Personalmente l’ho sempre chiamato “effetto Fruttolo”, riferendomi a quella dinamica per cui assaggi in età adulta qualcosa che ti sembrava deliziosa quando eri piccino, e t’accorgi che fa cacare. O comunque, che è una delusione.
Ecco, diciamo che guardando il terzo film di Bridget Jones, m’è venuto l’Effetto Fruttolo (se contate di vederlo, interrompete adesso la lettura, perché ci saranno spoiler, eccome se ci saranno).
Voglio dire: avrei preferito ricordarla così come l’avevo conosciuta (e amata, lo confesso) nel suo primo film: buffa, paffuta, single, tenera, ottimista, tabagista, alcolista, sarcastica, romantica, sempre pronta a stilare elenchi di buoni propositi, a perseguirli, a disattenderli, a cercare l’amore e a trovarlo perché, dai, tutto sommato era una favola (difficilmente, nella vita reale, ti capitano due manzi come Hugh Grant e Colin Firth, in contemporanea per giunta).
Avrei preferito ricordarla come una delle icone single di mezzo mondo, che sono lì, nell’immaginario collettivo, insieme a Carrie Bradshaw, alla Lena Dunham di Girls (per quanto sia meno mainstream) e a poche altre “eroine” pop dei nostri tempi. Tutti personaggi che, nei limiti della finzione narrativa, dando corpo a stereotipi diversi, possono comunque vantare il merito di essere riusciti — in qualche modo — a creare conversazione intorno ad alcuni temi dell’universo femminile: il sesso, l’accettazione del proprio corpo, la vita da single, le relazioni plurime, l’equilibrio tra emancipazione e ricerca vittoriana dell’amore, la dialettica tra indipendenza e bisogno irriducibile di un uomo che ratifichi il nostro valore di donne (uomo che inevitabilmente giunge, salvifico, perché tanto si sa, prima o poi arriva un santo pene redentore, ad accettarci e amarci esattamente per quelle che siamo, con tutte le nostre paturnie, i nostri difetti, persino i mutandoni contenitivi, no?)
Ecco, chiariamo una cosa: stiamo parlando di Bridget Jones e lungi da me fare una filippica di stampo femminista in merito. Purtuttavia, ho fatto sinceramente fatica a guardare questo film.
Avrei preferito ricordarla come una delle icone single di mezzo mondo, che sono lì, nell’immaginario collettivo, insieme a Carrie Bradshaw, alla Lena Dunham di Girls (per quanto sia meno mainstream) e a poche altre “eroine” pop dei nostri tempi. Tutti personaggi che, nei limiti della finzione narrativa, dando corpo a stereotipi diversi, possono comunque vantare il merito di essere riusciti
In primo luogo, non è un bel film e di certo non lo ricorderemo come pietra miliare nella storia della cinematografia contemporanea, ma questo lo sapevamo già.
In secondo luogo, non mi ha fatto ridere. Qualche sorriso, qualche buona battuta, interessante il ruolo di Emma Thompson, ma per il resto mi sarei aspettata una scrittura più brillante. Più affilata. Che, sinceramente, non ho trovato.
In terzo e ultimo luogo, Bridget sembra essere rimasta incastrata nella femminilità di 15 anni fa. Sembra non essersi evoluta. Sembra incapace di incarnare lo spirito del tempo che viviamo (riassunto nella collega 30enne assai disinvolta su Tinder, o nella nazi-kid che arriva in redazione accompagnata dai barbuti hipster), propinandoci una serie ininterrotta di messaggi sfacciatamente anti-femministi (e non che un film a target palesemente femminile debba essere femminista per forza, ma neppure sembrare una propaganda degli anni cinquanta).
Quella che troviamo sullo schermo, un decennio e passa dopo, è una Bridget che si giudica ancora attraverso la lente dell’ideale borghese di amore e famiglia. Lo faceva anche nel 2001, è vero, oggi però siamo nel 2016, e sarebbe stato interessante trovare una pur minima maturazione nel personaggio, scoprirlo cresciuto come siamo cresciute noi. Invece niente.
Quella che troviamo è una Bridget Jones che si auto-definisce “prostituta” dopo una notte di sesso occasionale. Una Bridget Jones che vive un imbarazzo pieno di vergogna di fronte all’incertezza sulla paternità del figlio che porta in grembo (ommioddio, ha fatto questa cosa indecente, da donna single e adulta, di andare a letto con due uomini diversi a distanza di dieci giorni, ommioddio! Quando l’unica cosa davvero critica, e cioè non aver adottato delle precauzioni sicure, passa totalmente in secondo piano). Che poi, questa storia della paternità incerta, rispetterebbe anche i canoni della commedia degli equivoci e funzionerebbe, se non fosse il solo e unico asse portante di tutta la vicenda, l’espediente tirato per due lunghe ore di senso di colpa e giudizio sociale; 125 minuti in cui nessun altro tema è autenticamente presente (l’amore, la maternità, il coraggio di essere una madre single, il rapporto con la “famiglia laica” degli amici, l’antagonismo tra il grande amore del passato e la nuova figura maschile che entra in campo — al di là delle gag demenziali messe in scena, voglio dire).
Quella che troviamo è una Bridget Jones che dopo la rottura delle acque fatica ad arrivare in clinica per colpa di “una stupida manifestazione femminista” (cito testualmente, ripetuto almeno due o tre volte) che blocca il traffico. E la madre di Bridget (quella provinciale e ultra-trash, la ricordate, sempre lei), arrivata in ospedale dopo il parto (pure lei in ritardo per colpa della manifestazione suddetta) ci regala l’epilogo perfetto: “Che diritti vogliamo ancora?”.
Giusto, che diritti vogliamo ancora? Di cosa si lamentano ancora le stupide femministe? Cosa vogliono quelle pseudo-Pussy-Riot rappresentate nel film come macchiette con le tette all’aria? Cos’è che vogliono, quando tutto ciò che importa è procreare?
La maternità in quanto tale (sia essa caotica, imperfetta, non voluta, rischiosa, impacciata, successa per sbaglio) è un bene incondizionato, da accogliere senza esitazioni, come sia sia, i figli per i figli, figliare purché si figli. Non aspettare la cicogna. La bellezza non ha età. La fertilità sì. Ghost writer: Beatrice Lorenzin.
Bridget sembra essere rimasta incastrata nella femminilità di 15 anni fa. Sembra non essersi evoluta. Sembra incapace di incarnare lo spirito del tempo che viviamo, propinandoci una serie ininterrotta di messaggi sfacciatamente anti-femministi
E allora mi sono chiesta: ma questa Bridget Jones cos’ha fatto nell’ultimo decennio, se non invecchiare (ma con un consistente contributo della chirurgia estetica), guardare i suoi amori sposarsi o morire, e le sue amiche riprodursi (persino l’amico omosessuale decide di adottare un bambino)? In che modo si è evoluta dalla condizione di 30enne incasinata, a quella di donna adulta e consapevole? La nostra amata Bridget cos’ha fatto, a parte continuare a sentirsi socialmente inadeguata per la sua singletudine (non può neppure definirsi “milf”, ci fa notare; Zilf, al massimo; Zitella I’d like to Fuck)?
La risposta è: niente. Come se la vita le fosse pacificamente scivolata addosso, nell’attesa che succedesse qualcosa degno di nota. E, il qualcosa degno di nota, inutile a dirsi, è il matrimonio, la progenie, la famiglia. La troviamo esattamente dove l’avevamo lasciata, semplicemente più vecchia, dimagrita e non più fumatrice. Ha anche fatto carriera, parrebbe, ma la sua professionalità va facilmente in vacca nel momento in cui l’elemento virile torna nella sua vita, come a rendere manifesta l’impossibilità di conciliare pene&lavoro.
Finché non arriva, alla fine, la preannunciata catarsi della goffa Bridget, da ultimo pronta ad ascendere al regno delle coniugate, finalmente madre, finalmente fiera di annunciarci, in abito bianco, che non è più una zitella e che sì, ne è ben compiaciuta.
A chi lo annuncia? A noi, direttamente a noi. A noi che l’avevamo amata proprio perché era – suo malgrado – un’outsider, proprio perché incarnava un archetipo di donna imperfetta, perché sapeva esorcizzare quell’inappropriatezza che era la cifra caratterizzante del suo personaggio, perché riusciva a convivere con i suoi limiti, tutto sommato ad accettarsi, a ironizzare e sdrammatizzarsi, a sopravvivere alle aspettative sociali pressanti, un po’ affaticata certo, come tutte noi; ma in definitiva capace di amarsi, tra alti e bassi, con o senza un pene accanto. Conservando la capacità di sognare, senza essere glamorous come le 4 smandrappate di New York City, quasi vera.
E persino quando, sul finire, il film potrebbe rifarsi, dare una svolta anti-convenzionale, trasmettere un messaggio nuovo, fare che il figlio sia di uno e che lei sposi l’altro, in un’idea di poliamore, di famiglia post-moderna, allargata, comprensiva e includente, complessa ma reale, anche qui, niente. Nulla. Il figlio è di quello che la sposa. La borghesia trionfa. La favola si conclude. La legittimazione è compiuta.
Probabilmente non vedremo mai una Bridget Jones 50enne e single, in una bella casa, a cena con i suoi amici, alcuni sposati, alcuni divorziati, alcuni omosessuali e alcuni etero. Zia affettuosa dei loro figli. Realizzata nel suo lavoro. Impegnata ad andare in palestra. Splendida e ricca. Anche senza un marito. Anche senza un figlio.
Al netto di tutto questo poi c’è la consueta componente fantascientifica ma, per l’appunto, è una commedia. Quindi perché non metterci due uomini aitanti e benestanti (uno affermato avvocato londinese in procinto di divorziare e l’altro americano, casualmente milionario, gnocco e single), che fanno a gara per esserle quanto più d’aiuto possibile, pronti ad amarla e ad accoglierla nella propria vita senza colpo ferire, con prole al seguito. Litigandosela persino. Certo. Naturalmente.
Così come si potrebbe osservare che dopo i 30 anni, mediamente, le coppie possono metterci un anno di rapporti non protetti prima che l’ovulo sia fecondato, e diversi tentativi prima che la gravidanza vada a buon fine. Ma nel caso di Bridget no. Con tutti i profilattici scaduti di mezzo, resta incinta così, a 43 anni, a primo colpo, detto-fatto. Beata lei e le sue ovaie (o i super-spermi dei suoi amanti).
Ma non appesantiamoci. Suvvia. È una commedia. Deve farci ridere (e come già detto…), deve emozionarci (se la noia vogliamo considerarla un’emozione…) e deve farci sognare (di procreare, naturalmente, come l’attualissimo dibattito sul Fertility Day ci ha insegnato).
C’è un solo personaggio interessante, ed è appunto la ginecologa che, a un certo punto, le dice che ce la può fare, anche da sola, che non ha bisogno dei due padri. Salvo poi farci vedere che Bridget non è neppure capace di prelevare soldi all’ATM senza dimenticarsi il pin; o di avere qualcosa da mangiare in frigo; o di arrivare alla fine del film senza licenziarsi o farsi licenziare; o di rientrare in casa con le proprie chiavi senza che Mark Darcy si materializzi sempre al posto giusto e al momento giusto per trarla in salvo, mentre lei è seduta per terra sotto la pioggia come una clochard gravida al nono mese.
Insomma, probabilmente non vedremo mai una Bridget Jones 50enne e single, in una bella casa, a cena con i suoi amici, alcuni sposati, alcuni divorziati, alcuni omosessuali e alcuni etero. Zia affettuosa dei loro figli. Realizzata nel suo lavoro. Impegnata ad andare in palestra. A viaggiare. A fare volontariato. Ad ascoltare musica jazz bevendo un bicchiere di vino, per gustarlo e non per sbronzarsi. A leggere. Ad andare a teatro con un uomo. A essere felice della sua vita, per quella che è. Splendida e ricca. Anche senza un marito. Anche senza un figlio.
In effetti, sarebbe tutto un altro film. E il fatto forse è banalmente questo: lei non è cambiata affatto. Noialtre, per fortuna, sì.