TaccolaIl piano per la nuova industria non faccia crescere solo chi è già forte

È arrivato il Piano nazionale Industria 4.0. Ha un pregio rispetto ai precedenti : lasciare che siano le imprese a decidere quali investimenti fare. Ma se non funzioneranno le cinghie di trasmissione con le Pmi il rischio è favorire le 5mila imprese che già oggi fanno ricerca e vanno all’estero

Anche l’Italia ha un piano per l’Industria 4.0 e questa è una buona notizia. Lo è soprattutto perché il governo, che mercoledì 21 settembre lo ha presentato a Milano con il premier Renzi e il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, ha deciso di abbandonare la logica dei bandi a favore degli incentivi automatici. Per dirla con Calenda, è finito il tempo in cui quattro persone al ministero decidono cosa è l’innovazione di cui le aziende hanno bisogno. Quell’approccio ha fatto fallire il piano Industria 2015 e ha tagliato fuori le aziende meno attrezzate con dipartimenti in grado di preparare la documentazione per partecipare ai bandi. Ora, è il messaggio inviato agli imprenditori, tocca a voi decidere dove investire, mentre il governo si impegna ad agire con azioni orizzontali tra i vari settori e operare sui fattori abilitanti, come la banda larga e gli standard di interoperabilità.

L’elenco delle misure è lungo e si divide in quattro pilastri: gli incentivi agli investimenti innovativi, la spinta sulle competenze, il lavoro sulle “infrastrutture abilitanti” e gli strumenti pubblici di supporto classici (il Fondo di Garanzia per le Pmi e i contratti di sviluppo, rivolti soprattutto al Sud), che vengono riorientati verso i processi industriali più moderni.

Le aziende, con le associazioni di categoria confindustriali, hanno applaudito. La domanda da porsi, prima che tutto il sistema parta, però, è quanto questi strumenti saranno in grado di raggiungere le imprese “normali’. Vale a dire non le poche medie e grandi imprese che già oggi fanno investimenti in tecnologia ed esportano. Ma le centinaia di migliaia di aziende manifatturiere attive in Italia. Perché decidano di attivarsi e raggiungano l’obiettivo fissato dal governo di 10 miliardi di investimenti privati in più solo nel 2017, devono prima di tutto capire di cosa si sta parlando. «Il primo problema è di comunicazione», commenta Francesco Seghezzi, ricercatore del centro studi Adapt. Spiegare cosa sia l’Industria 4.0 è tutt’altro che semplice, perché si tratta una combinazione di nuove tecnologie (macchine intelligenti interconnesse e collegate a internet) e nuovi processi. Il governo, con Calenda e Renzi nel ruolo di “spalla”, se dobbiamo credere all’annuncio fatto, farà un roadshow in decine di città italiane per incontrare gli imprenditori. Poi, però, serve molto altro.

«È finito il tempo in cui quattro persone al ministero decidono cosa è l’innovazione di cui le aziende hanno bisogno»


Carlo Calenda

Sul fronte degli incentivi sembrano esserci i problemi minori. I meccanismi automatici sono più alla portata di imprese di piccole e medie dimensioni. Così chi investe un milione di euro in uno dei macchinari che il ministero identificherà come relativo all’Industria 4.0 potrà godere di un “iperammortamento” al 250 per cento. Tradotto in soldoni, potrà recuperare 360mila euro in cinque anni pagando meno tasse, senza passare da bandi astrusi. Lo stesso vale per le spese incrementali (cioè maggiori della media dei tre anni precedenti) in ricerca e sviluppo, per le quali è previsto un aumento del credito di imposta (per le spese “interne” dal 25% al 50%).

Dove invece gli ostacoli si intravedono è sul secondo pilastro del piano: il rapporto con le università, che fino a oggi sono state poco abituate a parlare con le imprese e se lo hanno fatto si sono limitate per lo più alle grandi imprese. Così, anche punti importanti della missione affidata ai sette “Competence center” (ossia università) individuati dal governo, come la “advisory tecnologica per le Pmi sull’I4.0”, rischiano di restare sulla carta. Per questo è necessario che vengano attivati il prima possibile i “Digital Innovation Hub”, la seconda gamba dell’ambito delle “competenze” individuato dal governo. Sono definiti dal governo come un ponte tra impresa, ricerca e finanza e a metterli in piedi dovranno pensare le rappresentanze di Confindustria e di Rete imprese Italia. L’idea è europea, nata dal programma “Digital european industry” dello scorso aprile, che ha messo a disposizione 500 milioni di euro in tutta Europa. «Oggi questi strumenti sono l’unica strada per fare innovazione coinvolgendo le Pmi» sottolinea Seghezzi». Perché il meccanismo funzioni è necessario che questi centri diano sostanza alla loro missione: sensibilizzare le imprese sulle opportunità dell’Industria 4.0, supportarle nelle attività di pianificazione di investimenti e nell’accesso ai finanziamenti pubblici e privati, fornire loro servizi di mentoring e indirizzarle verso il secondo step, i Competence center stessi.

La domanda da porsi, prima che tutto il sistema parta, è quanto questi strumenti saranno in grado di raggiungere le imprese “normali’

Le imprese nei distretti o nelle aree periferici hanno anche un altro ostacolo di fronte: i Competence center individuati dal ministero sono pochi. Sono i Politecnici di Milano, Torino e Bari, la Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa, l’Università di Bologna, la Federico II di Napoli e le università venete, che si sono unite. La scelta di individuarne poche è stata rivendicata dal ministro Calenda. «L’Italia deve saper scegliere dove investire – ha detto -: mi spiace ma il mondo non sta dietro casa, un imprenditore che è distante si mette in viaggio e raggiunge l’università». Discorso razionale, ma con un problema: le università sono state scelte sulla base dei ranking internazionali sulla ricerca nella tecnologia, mentre, spiega Seghezzi, «non sono stati valutati i rapporti tra le università e le imprese. Penso sia un errore». Tagliati fuori sarebbe quindi atenei che sono cresciuti con uno stretto rapporto con le imprese, come quelli di Ancona, Udine o Trieste.

Le Pmi che si attiveranno avranno comunque a disposizione alcuni supporti ad hoc previsti dal piano. Potranno utilizzare il Fondo di Garanzia, che avrà nel 2017 un finanziamento aggiuntivo di 900 milioni di euro e che sarà rimodulato per dare priorità alle imprese con rating non altissimo («altrimenti è come finanziare le banche», ha detto Calenda) e che useranno i soldi per gli investimenti. Inoltre, è previsto un supporto consulenziale per un numero ancora non precisato di medie imprese che ancora non hanno sfruttato in pieno il loro potenziale. A prendersi cura di queste imprese saranno delle “società di consulenza top”. «Tra un anno potrete verificare i numeri», ha detto Renzi, facendo eco a Calenda che aveva annunciato delle verifiche “spietate” sulla execution da fare ogni sei mesi, come si fa in una azienda. Già da domani, però, le associazioni di categoria devono cominciare a pedalare per dimostrare di avere a cuore anche le migliaia di piccole imprese che fanno parte del pulviscolo produttivo italiano.

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