Ilary contro Spalletti: se la parità di genere passa dalla libertà di offesa

Ilary mette in crisi ancor di più la panchina di Spalletti, gettando benzina sul fuoco dopo risultati deludenti. Ma ogni volta che la moglie di un calciatore si esprime pubblicamente nascono polemiche, non solo per quello che dice, ma anche solo per il fatto di averlo detto

Francesco Totti compie quarant’anni oggi e, da venti, il giorno del suo compleanno è il secondo Natale di Roma (l’altro è il 21 aprile, data in cui ricorre la fondazione della città per mano di Romolo). Sua moglie gli ha regalato, per l’occasione, un’intervista su La Gazzetta dello Sport di ieri, rilasciata a sua insaputa e destinata a turbare i già compromessi equilibri giallorossi per diverse settimane, se non proprio per tutto il campionato, tanto da costringere il Capitano a trascorrere il suo ultimo giorno da trentanovenne al fianco di uffici stampa, per diramare un comunicato che la stemperasse. “Spalletti è stato un piccolo uomo“, ha detto lei rispondendo all’inevitabile domanda sulle diverse panchine che l’allenatore ha riservato a suo marito. “Ilary ha interiorizzato le mie difficoltà ma oggi con il presidente Pallotta e mister Spalletti c’è sintonia totale”, ha replicato lui. Oscurati i 50 anni di Lorenzo Jovanotti, oscurata l’ufficializzazione del referendum: l’Italia non ha parlato d’altro. Il punto della faccenda ha smesso presto di essere calcistico – anche perché Ilary ha dichiarato: “non mi impiccio delle scelte tecniche, però avrei da ridire a livello umano” – e si è guadagnato un posto di primo piano nell’agone del #genderequality.

“Le mogli non sono soprammobili. Le donne possono parlare di calcio così come voi che offendete riempite di banalità il calcio. Brava Ilary Blasi”, ha twittato Francesca Barra, giornalista (spesso anche opinionista sportiva) che già altre volte è scesa in campo per far sì che le quote rosa del pallone venissero accreditate anche come quote parlanti, pensanti e rispettabili. E credendo molto nella parità, Barra ha anche aggiunto che “piccolo uomo sembra imperdonabile a chi solitamente definisce capra o troia la donna o il prossimo”. Se ne dovrebbe dedurre, allora, che la reazione inviperita di molti che nelle parole di Ilary hanno letto insulti aggravati dalla mancanza di una pertinenza sportiva, ci avevano visto giusto e che, per Barra, a una donna è concesso indulgere in quella che, finora, è stata una pratica – l’offesa – di esclusivo appannaggio maschile. E che quindi, evviva, ora tocca alle femmine insultare. Ma dedurre secondo logica è un’operazione che lasciamo agli uomini: l’intervento di Barra voleva sottolineare che il tempo delle wags mute, stupide e tiepide è passato. Che le mogli dei calciatori non sono più veline ma first lady e che, così come le first lady hanno smesso di consistere di tailleur e hanno preso a dividere il soglio del marito sormontandolo di opinioni proprie, anche loro hanno un’influenza da rivendicare, un apporto da consegnare, una differenza da fare.

“Le donne non dovrebbero parlare di calcio perché non sono adatte”, disse solo cinque mesi fa Sinisa Mihajlovic, allora allenatore del Milan, in risposta alle dichiarazioni di Melissa Satta, secondo la quale negli spogliatoi rossoneri mancava serenità (dichiarazione che si prestava a milioni di malizie, nessuna delle quali pervenne: ottimo dato sullo scranno della battaglia al sessismo come abitudine culturale). Francesca Barra, naturalmente, insieme a molte altre sue colleghe, protestò veementemente.

Cavalcare adesso l’onda del dissenso che sta investendo Spalletti è di un tempismo impossibile da rimandare al di sopra di ogni sospetto

Stavolta, però, Miha ha taciuto: ha imparato la lezione (si può pensare che una donna dica cose cretine, ma non glielo si può dire, che è la trasfigurazione dell’aprirle la portiera credendola incapace di sostenerne il peso). Deve aver ghignato molto, però, poiché, adesso, il Miha allena il Torino che, meno di 24 ore prima della pubblicazione dell’intervista alla Blasi ha sconfitto i lupacchiotti in casa (3 a 1!): che deliziosa coincidenza. Una partita che ha accresciuto il malcontento della tifoseria romanista nei confronti di Spalletti (esiste un allenatore che i romanisti non abbiano voluto far fuori dopo la prima sconfitta?) regalando – ma non era previsto – un terreno già perfettamente concimato agli attacchi di Ilary, nei quali sia Barra che Totti intravedono i segni di un grande amore. Una moglie che, dopo mesi di indicibili sofferenze (assistere, impotente, mentre un marito campione del mondo, capitano della propria squadra, genius loci universalmente riconosciuto, per qualche turno viene lasciato in panchina presupponendo, su friabili basi scientifiche, che la sua prestanza atletica possa fare cilecca e, soprattutto, osando mettere in discussione che la Roma è il suo latifondo) ha deciso di rompere il silenzio, testimoniare quel dolore, infrangere un tabù e riaccendere una miccia sulle ceneri di un focolaio che ci sono voluti mesi e acrobazie diplomatiche per evitare che diventasse un incendio. Ilary è intervenuta in rappresentanza di suo marito ed è u po’ complicato credere al teatrino dell’intervista non collaudata, nonostante la smentita/ rettifica/ delucidazione: cavalcare ora l’onda di dissenso che sta investendo Spalletti è di un tempismo impossibile da rimandare al di sopra di ogni sospetto. Volendo accreditare questa ipotesi, la più maliziosa delle ipotesi, ovvero che moglie e marito abbiano pianificato l’intervista e che, quindi, Totti abbia demandato a Ilary il compito di dare una spallata al suo mister, la signora avrebbe così avallato una meccanica che non solo la mantiene integra nel paradigma di “soprammobile”, ma la degrada a pomo della discordia, portavoce.

Volendo, invece, credere che si sia effettivamente trattato di un’uscita se non spontanea almeno non architettata (e viene voglia di crederci solo perché Totti è Totti, uno che qualche settimana fa ha pubblicato una lettera in cui ringrazia la mamma per averlo accompagnato agli allenamenti, avergli impedito di andare al Milan ed essere rimasta la comandante di quando lui era un ragazzino), la cosa più femminista che si può accreditare a Ilary Blasi è la stolidità. Credere nell’ingresso dell’opinione femminile nel calcio dovrebbe comportare due cose: evitare che tutte le volte che una donna parla, se ne alzino altre venti a difenderla dalle conseguenze delle sue parole, poiché stare al mondo alla pari significa accettarne le regole e una di queste regole è che la comunicazione comporta botte, risposte, attacchi, contestazioni, insomma conseguenze (lo spot della Lavazza dovrebbe averci insegnato che persino le intenzioni hanno conseguenze, figuriamoci le parole); se una donna dice un’idiozia, dev’essere legittimo, legale, persino auspicabile che glielo si faccia notare.

Si spera, inoltre, sempre in linea con la parificazione tanto agognata, che nelle discussioni sul calcio non si superi il limite rigido all’introduzione di emotività ormonale e al salotto rosa, come concessione alle signore: parlare di “percorso umano”, “momento delicato nella vita di un ragazzo” e broccoli è roba da tè con le amiche, non da retroscena di una panchina. Ammetterlo, ancora più che sportivo, è femminista.

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