La Siria dopo l’Isis? Usa e Russia litigano, Erdogan e Assad ne approfittano

Gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a indirizzare a proprio favore le trattative, che restano in una fase di stallo. La Turchia, invece, approfitta degli ultimi accordi con Putin per volgere a suo favore la situazione

Il G20 in Cina non ha partorito alcun accordo sulla Siria tra Stati Uniti e Russia. Obama ha pagato l’avere un piede già fuori dalla Casa Bianca, gli otto anni di non-interventismo figlio dello scellerato avventurismo del suo predecessore, George W. Bush, e una dinamica geopolitica lenta ma macroscopica che pare porti gli Stati Uniti sempre più lontano dal Medio Oriente e dall’Europa in favore dell’area del Pacifico. Putin, dal canto suo, sembra avere le mani legate: l’alleato siriano, Bashar al Assad, salvato dall’intervento russo lo scorso anno, non ha intenzione di farsi da parte né di propiziare una tregua coi ribelli. Non avendo alternative con cui sostituirlo il Cremlino (insieme all’Iran) è costretto ad assecondarlo, essendo oramai ostaggio della determinazione del dittatore a non cedere un millimetro alle richieste dell’opposizione o della comunità internazionale. Ma se i pesi massimi della scena internazionale sono immobilizzati da attese elettorali e da altre (più importanti) partite strategiche, gli attori regionali pare si stiano disponendo a configurare un nuovo equilibrio in Siria.

Quello che è stato fino a poco tempo fa il maggior sostenitore dei ribelli, la Turchia di Erdogan, pare abbia cambiato drasticamente approccio alla questione siriana dopo il fallito golpe dello scorso luglio. Prima Erdogan ha ricucito i rapporti con Putin – tesi per via della guerra in Siria, dove sostengono fronti opposti, già dal 2012 ma precipitati dopo l’abbattimento di un caccia bombardiere russo da parte dell’aviazione turca nel novembre 2015 -, in reazione a quella che è stata considerata una grave mancanza di solidarietà, se non peggio, da parte dell’Occidente. Poi, a fronte di una preoccupazione oramai incontenibile per l’avanzata a ovest dell’Eufrate dei guerriglieri curdi siriani del YPG (per Ankara collegati col PKK), ha sfruttato i buoni uffici ristabiliti con Mosca per ottenere da Damasco e da Teheran il via libera a un’operazione militare volta a stroncare il rischio che i curdi potessero unificare i propri tre cantoni (mancavano oramai da liberare meno di 50 km di territorio controllato dall’Isis per collegare Cizre e Kobane ad Afrin). Così è nata l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, l’invasione di fatto da parte dell’esercito turco del nord della Siria al fianco di ribelli siriani armati – e sfruttati – da Ankara. Gli obiettivi dichiarati sono scacciare l’Isis dall’area e soprattutto impedire che questa venga liberata, e occupata, dai curdi siriani e dai loro alleati delle Syrian Democratic Forces (SDF).

Nessun passo avanti dopo il G20 di Pechino. Obama e Putin sono ancora lontani, mentre la Turchia di Erdogan, dopo il golpe, si è avvicinata ai russi per poter mettere fuori gioco i curdi

Damasco, al di là di qualche blanda parola di protesta, non ha mosso un dito per contrastare questa violazione della propria sovranità. Teheran, alleata di Assad, ha addirittura qualificato come “comprensibili” le azioni turche. Mosca, che della Siria ha il controllo dei cieli (proprio dopo il violento scontro con Ankara di novembre scorso), ha lasciato fare e anzi ora invita la Turchia a coordinarsi col governo “legittimo” siriano. Il pericolo che i curdi – una minoranza presente oltre che in Siria anche in Iran, Iraq e Turchia – potessero ottenere l’indipendenza ha unito quelli che fino a poco fa erano acerrimi nemici (e Mosca ha scelto di stare dalla parte dei propri alleati piuttosto che da quella di un popolo senza Stato, avendo anche l’occasione di risucchiare nella propria area di influenza la Turchia, membro Nato). Ma non c’è stato solo questo. Ad Assad è stato concesso quello che finora Erdogan si era rifiutato di concedere: adesso per la Turchia va bene che il dittatore resti durante una (futuribile) fase di transizione, il suo abbandono del potere non è più né una priorità né un pre-requisito per il dialogo. E sul terreno questo potrebbe voler dire – si vedrà nelle prossime settimane, ma già ci sono alcune avvisaglie – che l’aiuto di Ankara ai ribelli estranei all’operazione Scudo dell’Eufrate, in termini di finanziamenti e armi, si ridurrà drasticamente (per la gioia di Damasco, Teheran e Mosca).

La Turchia, in poco più di dieci giorni dall’inizio dell’operazione, ha sigillato il proprio confine spazzando via l’Isis. Ora lo Stato Islamico non ha più modo di far affluire mezzi e uomini tra le maglie larghe del tratto di frontiera turca con cui confinava e la sua asfissia già grave è destinata a peggiorare ulteriormente. Gli Stati Uniti si rallegrano di questa situazione ma allo stesso tempo sono preoccupati che adesso Ankara, sua alleata nella Nato, dia seguito alle proprie minacce e inizi a colpire duramente (finora ci sono state solo poche scaramucce) i curdi siriani e le SDF, suoi alleati nella coalizione anti-Isis. Il rappresentante di Obama per tale coalizione, Brett McGurk, si è recato in visita nei territori controllati dai curdi ed è evidente il tentativo americano di evitare questo scontro. Finora però è anche sembrato altrettanto evidente che piuttosto che allontanare se non perdere un alleato fondamentale come la Turchia (che ora flirta con Mosca), gli Usa nei fatti abbandoneranno i curdi siriani al proprio destino.

Gli Usa assistono alle continue sconfitte dell’Isis, ma non possono gioirne fino in fondo: Ankara, forte della situazione, potrebbe procedere contro i curdi e le SDF, alleati degli stessi Stati Uniti

Se l’accordo tra Assad ed Erdogan dovesse reggere si andrebbe verso una situazione in cui la Turchia di fatto si è annessa un pezzo di nord della Siria, ai curdi restano in controllo i propri cantoni ma divisi da un cuneo di Siria/Turchia controllato da esercito turco e ribelli siriani filo-turchi, l’Isis prosegue la sua lenta agonia (che produce attentati terroristici in Siria e all’estero) e il regime è libero di concentrarsi sugli altri ribelli rimasti orfani di protettori. Già ad Aleppo i quartieri controllati dagli insorti sono finiti sotto assedio dei lealisti per la seconda volta e, senza l’aiuto turco, è dubbio che stavolta possano rompere l’accerchiamento. Potrebbe riportare in equilibrio la situazione un eventuale ritorno sulla scena dell’Arabia Saudita, grande supporter dei ribelli (in particolare dei gruppi salafiti jihadisti) in passato che ha però dovuto ridurre il suo sostegno dopo essere rimasta invischiata nella guerra in Yemen contro i ribelli sciiti Houthi (sostenuti dall’Iran, in quello scontro tra potenze sunnita e sciita che ha disseminato violenza in tutto il Medio Oriente). Al momento non ci sono ancora segnali in questo senso ma Riad difficilmente vorrà cedere la vittoria in Siria al fronte sciita guidato da Teheran, e se lo facesse sarebbe un segnale di grave debolezza.

Così come per l’Isis, anche per i ribelli – in particolare per quelli che contavano sull’appoggio della Turchia pur senza essere da essa direttamente controllati, come invece quelli dell’operazione Scudo dell’Eufrate – rischia di aprirsi ora una fase di grave difficoltà e carenza di risorse. Il regime di Assad, insieme ai suoi alleati, cercherà probabilmente di approfittare della congiuntura favorevole (Saud distratti nello Yemen, Ankara avvicinatasi a Mosca e costretta dalla paura dello spettro curdo a scendere a patti) per spuntare una vittoria militare, il che allontana la possibilità che i colloqui di pace riprendano con speranze di successo. Ma il problema più grande non sembra destinato ad essere risolto in questo modo: cosa ne sarà della Siria in futuro. La popolazione in maggioranza sunnita e i milioni di profughi scappati dalle bombe di Assad difficilmente potrebbero accettare una permanenza del dittatore, pur vittorioso sul campo, e questo protrarrebbe le violenze (se non la guerra) all’infinito. Allo stesso modo senza Assad non sono garantiti gli interessi dei suoi potenti alleati, russi e iraniani. Ipotesi di scissione del Paese sono rese difficili dalla presenza dei curdi, che probabilmente otterrebbero la propria fetta di territorio, cosa indigeribile per Ankara. Nessuno sa cosa fare nel lungo periodo, se non stare a guardare aggiustando – nel bagno di sangue del popolo siriano – i propri interessi nel breve.

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