IntervistaLiana Finck, la vignettista del New Yorker: «Hillary è una mamma, Trump un’aquila cattiva»

La geniale disegnatrice dello storico settimanale della Grande Mela racconta le regole non scritte del giornale e le sue impressioni sulla politica americana. “Mi piaceva Sanders, ma gli attacchi sessisti contro Clinton di certi suoi sostenitori mi hanno fatto allontanare”

«Ti dispiace se disegno mentre mi intervisti e mi chiedi di Trump e di New York? Mi aiuta a rilassarmi un po’». La penna corre dolce e regolare sul foglio Fabriano, traccia riquadri che presto si riempiranno di personaggi, incredibilmente diritti e perpendicolari se si pensa che vengono da una mano che li compone quasi al contrario, tenendo poggiato il blocco sulle ginocchia, in una posizione non proprio confortevole. Ma con Liana Finck è sempre così, quei pensieri che sembrano nascere storti e involuti poi sono lineari e semplici come il suo tratto. È l’inganno, la sorpresa che riservano i caratteri timidi. Incontrare una delle più geniali disegnatrici del New Yorker, il giornale icona immortale di eleganza e intelligenza, sui divanetti dell’albergo cortinese dal quale si vedono le Cinque Torri, dopo l’incontro che l’ha vista protagonista a “Una Montagna di Libri”. Per scoprirne la mitezza, la vulnerabilità, insieme all’ironia infinita. Le stesse che ha impiegato in A Bintel Brief, graphic novel dedicata agli immigrati ebrei newyorkesi di fine Ottocento, che sbarcavano a Coney Island da luoghi remoti – la Lituania, la Galizia, l’Ucraina – e si trovavano disorientati e impauriti nel nuovo continente, nella vasta città. E cercavano di placare i propri dybbuk, gli spiritelli maligni che nella tradizione yiddish tormentano le povere anime, in cerca di aiuto.

«Ho disegnato quel libro anche per riconnettermi con i miei antenati. L’America li accolse quando scappavano dalle persecuzioni e io le sono grata».

Liana, disegni per placare anche tu i tuoi dybbuk?
Ho bisogno di disegnare. Non so quante vignette faccio in un giorno, ma so che disegno tutto il giorno. È una forma di terapia? Sì. Non ho potuto disegnare per due giorni quando ho viaggiato per venire a Cortina da New York, e ho pianto molto.

Quando hai cominciato?
Avevo undici mesi. Ovviamente non ricordo quale fosse il disegno. Non ho mai smesso. Neanche dopo che successe quell’incidente con l’insegnante delle medie.

Ovvero?
Era una professoressa che si comportava in modo orribile. Ci torturava psicologicamente. Ed era molto anziana. Allora feci una vignetta buffa, con un bambino maligno nato durante l’età della pietra, che era lei, e che causava l’estinzione dei dinosauri. Fu popolare per qualche ora presso i miei compagni. Poi successe la tragedia, perché anche a causa del disegno la professoressa lasciò la scuola. Non avevo voluto che se ne andasse. Mi sentii così potente. E così colpevole.

Un personaggio cattivo che disegni spesso si chiama Mr. Neutral. Chi è?
È un mio ex che mi ha trattata male, e che è una superstar di Instagram. Aprii un profilo Instagram quando ero molto innamorata di lui, per attirare la sua attenzione. E poi, quando mi ferì e giocò con i miei sentimenti, lo trasformai in un personaggio cattivo, che è diventato frequente sul mio canale. Mi ha aiutato a superare il trauma.

Instagram ha cambiato il tuo modo di disegnare?
Mi ha aiutato a trovare la mia voce. Rompe ogni schema. Ma penso di essere peggiorata come disegnatrice del New Yorker da quando mi sono iscritta, perché seguo meno le regole del giornale.

Quali sono le regole dei vignettisti del New Yorker?
Sono regole non scritte, ma che tutti seguono. Sii sempre arguta; mantieni una certa distanza tra te e le cose; segui il mood del giornale. Quando disegni per il New Yorker non stai necessariamente esprimendo te stessa. Stai facendo un puzzle, un puzzle molto interessante. E poi c’è quella regola dei genitali. [Ride].

Prego?
Non si disegnano ani e vagine sul New Yorker. I peni sì, sono concessi. Ma non gli altri.

E perché mai?
Perché sono organi interni.

Hai fatto una vignetta per scherzare sulle cose che gli americani ti dicono quando dici loro che stai per andare a Venezia.
Sì, e sono cose deliranti. Per esempio che non potrai che innamorarti. Oppure ti chiedono se visiterai anche la Grecia. Scherzi a parte, sono contenta di andare a Venezia, dopo essere stata nella splendida Cortina.

E poi c’è quell’altro tuo disegno in cui mostri una scena del 1969, con un signore vestito in giacca e cravatta che invidia uno della controcultura seduto sul marciapiedi, e l’hippie che di rimando invidia i suoi soldi. Accanto, mostri che nel 2016 i due personaggi si sono fusi in uno solo, che è ricco e vestito come un hippie. Il fatto che questo sia accaduto è un progresso?
Penso di sì. C’è chi idealizza gli esponenti della controcultura degli anni Sessanta e Settanta. Ma io non amo gli hippie. Erano sessisti. Per fortuna le cose stanno cambiando. E il capitalismo non sarà perfetto, ma viviamo in tempi esaltanti.

Come ha detto Obama, il progresso accade. Alla sinistra europea può non piacere, ma è così.
Sì. Penso che siamo diventati così consapevoli… Mi sento una cartina di tornasole del progresso. Non mi accorgevo del razzismo intorno a me come faccio ora, non ero così femminista, quasi non vedevo i gay… Tutte cose che sono cambiate radicalmente. Questo è progresso, il fatto che me ne renda conto, no?.

E poi c’è The Donald. In un’altra vignetta hai disegnato dei ratti che scappano via dagli Stati Uniti. Topi che lasciano la nave. Una metafora dell’America di Trump, ovviamente.
Sì. Siamo terrificati da Trump. Io e tanti altri. C’è addirittura chi pensa che se lui sarà eletto non ci saranno speranze per questa nazione e che si debba andare via.

Anche tu ti senti così?
Un po’ sì, ma penso che sia il modo sbagliato di ragionare. Penso che se Trump fosse eletto il nostro dovere sarebbe di restare qui e lottare.

Ricordo che quando Bush fu rieletto ci fu un coro di intellettuali gauchisti che annunciarono: “Adesso ce ne andiamo via da Jesusland”. Non sono reazioni un po’ isteriche?
Forse sì. Ma Bush è stato oggettivamente un pessimo presidente, e Trump sarà peggio, credo. È un personaggio dei fumetti.

Detto da te è significativo. Di solito non fai satira politica, ma se dovessi raffigurare Trump come un animale…?
Farei un’aquila. Un’aquila cattiva.

E Obama?
Non sceglierei un animale per rappresentarlo. Vediamo… Lo disegnerei come un bambino. Come un ragazzino di undici anni. Che indossa un completo, come un adulto.

Proseguiamo il gioco. Hillary come la raffiguri?
Hillary è come una mamma. La mia idea di mamma, almeno. È una che è nata negli anni Cinquanta, i suoi genitori volevano che si sposasse, lei ha cercato un impegno politico ma il femminismo era troppo debole, e al tempo stesso troppo duro e severo. Quindi ha deciso di lavorare all’interno del sistema, e di fare dei compromessi.

Non sei d’accordo con chi considera la Clinton particolarmente corrotta?
No. Penso che non sia peggio di tutti gli altri, da questo punto di vista. E io voglio una donna presidente. Non una donna cattiva, per carità. Ma una donna sì. Hillary andrebbe benissimo. Penso che questi contro di lei siano giudizi sessisti.

Hai votato per lei alle primarie?
Non ho votato per nessuno. Ma ero una sostenitrice di Sanders. Le sue politiche sono ottime. Poi appunto mi hanno allontanata certi esempi di sessismo.

Da parte di Bernie?
Oh, no, non da lui personalmente. Lui è ok. Da parte dei suoi sostenitori, semmai. Urlavano certi slogan contro Hillary che trasudavano odio verso le donne.

A Bintel Brief è un atto di amore verso i tuoi antenati ebrei. Che rapporto hai con Israele?
Ho un forte attaccamento verso Israele, ci vado spesso, ho imparato l’ebraico, lì abitano tanti miei parenti, ma mi sento divisa nei miei sentimenti a causa del suo governo. Non condivido quello che sta accadendo lì. Mi sembra che siano indietro di cento anni per quanto concerne il rispetto verso popolazioni più povere e dalla pelle più scura. Israele è molto cambiata in questi vent’anni. Le cose potevano andare diversamente, se Rabin non fosse morto. Senza lasciare la Palestina né rinunciare allo Stato ebraico avremmo potuto però correggere gli errori del colonialismo, che Israele condivide. E invece.

Tu abiti a Brooklyn e sei cresciuta in una cittadina dello Stato di New York. Ti senti anche tu come Woody Allen, che dice che non potrebbe abitare in nessun altro luogo all’infuori di New York?
No. Sono una ragazza di montagna. Se potessi farei sì che New York assomigliasse a città più piccole come Pittsburgh o Baltimora. La mia vera casa è la natura.

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