Abbiamo lasciato passare qualche giorno, perché la notizia non ci sembrava così sensazionale e perché non era di questo, in fondo, che volevamo parlare: Manuel Agnelli ha superato la prova X Factor, bucando lo schermo. La storiella del ruolo del moscerino, della blatta e suo la conoscete già, come anche le tre quattro battute tranchant con cui il nostro ha dimostrato, non era difficile, di avere più competenze musicali di un Fedez o un Alvaro Soler. Bene, bravo, bis. Non è di questo che vogliamo parlare. Anche se è da questo che vogliamo partire. Dalla presenza di Manuel Agnelli sulla poltrona di giudice di X Factor.
Perché, per i motivi inspiegabili per cui il talent di Sky continua a essere argomento di discussione da bar nonostante vada, appunto, su una rete a pagamento (è vero, quest’anno ci sono da subito le repliche su Cielo, ma sono appunto dovute all’emorragia di ascolti dell’edizione precedente, mica una concessione generosa di una divinità benevola) e sia, quindi, irrilevante da un punto di vista numerico. Sin da quando è uscita la notizia che lui, Manuel Agnelli, il leader degli Afterhours sarebbe andato a X Factor si è aperto dibattito. Anzi, più di un dibattito. Da una parte c’è stata la stragrande maggioranza della gente che segue quel talent che si è chiesto chi fosse Manuel Agnelli, non molto confortata da Youtube o Google, perché il tanto materiale presente in rete non giustificava, apparentemente la presenza di questo cinquantenne non esattamente popolarissimo, secondo logiche mainstream.
C’è stato il processo pubblico, in stile De Gregori al Palalido, con il quale i fan del nostro, ma soprattutto i seguaci dell’indie hanno iniziato a rompere il capello in quattro
Dall’altra c’è stato il processo pubblico, in stile De Gregori al Palalido, con il quale i fan del nostro, ma soprattutto i seguaci dell’indie hanno iniziato a rompere il capello in quattro riguardo questo che, agli occhi di molti, è risultato essere un tradimento. Un tradimento. Ecco, partiamo da qui. Manuel Agnelli è il leader di una band che ha fatto la storia della nostra musica alternativa, underground o come diavolo la volete chiamare.
No, anzi, non come diavolo la volete chiamare, perché magari a qualcuno, indotto dal vociare di sottofondo, potrebbe venire in mente di chiamare questa musica indie, incappando in un errore madornale, e andando in qualche modo incontro proprio alla vera motivazione, ci ha spiegato, per cui è finito lì, a fare il giudice di un talent con il quale, non giriamoci intorno, nulla ha a che fare.Gli Afterhours hanno fatto la storia della musica underground, usiamo un termine anni novanta, ma non sono una band indie. Anzi, seppur avendo contribuito a far nascere quella che impropriamente viene chiamata scena indie, da tampo ne hanno preso le distanze, legittimamente. L’underground, lasciateci usare questo termine che oggi suona un po’ naif (del resto la presenza di Agnelli in mezzo a Arisa e Fedez è naif, come altro la vogliamo chiamare?), era un luogo di libertà. O almeno ambiva a esserlo.
Nato dal basso, davvero, era un ambiente, inteso come si definiva ambiente la rete un tempo, dove si provava a costruire qualcosa usando logiche diverse dall’overground, dall’emerso, dal mainstream. Un mercato, certo, ma le cui regole erano dettate, almeno ci si provava, da chi lo animava, non dalla macchina. Gli Afterhours, e con loro i Rito Tribale, i Marlene Kuntz, i Subsonica, i La Crus, gli Scisma, Cristina Donà e tutta una serie di altri nomi importanti, figli dei primi Litfiba, dei Diaframma e soprattutto dei CCCP/CSI, provarono a cambiare le carte in tavola, mostrando all’industria un gruppo apparentemente coeso, con un preciso immaginario, un immaginario dato proprio dalla molteplicità di immaginari di tutte quelle realtà, un gruppo che provava a indicare una strada alternativa, appunto, a quella ufficiale, a quella che passava da radio e tv. Intorno a quell’idea, a quella musica, nacque un progetto ambizioso, il Tora! Tora!, che sin da subito mise in evidenza i primi grossi bug di quel pensiero, dall’incapacità di andare avanti in assenza dei nomi traino al fatto che, senza i soldi dell’industria pesante, gli sponsor mainstream, quel baraccone che ambiva a essere il Lollapalooza italiano, non si teneva in piedi.Poi è arrivato il momento della maturità di quegli artisti, e per maturità si intende maturità anagrafica, in qualche modo il distacco, le firme con le major. Arriverà anche Sanremo, un po’ per tutti, anche per gli Afterhours stessi, che però misero quell’esperienza così forte a servizio del gruppo. Andare al Festival della Canzone Italiana senza avere un album in uscita è sempre stato considerato un suicidio. Andarci consapevoli di essere il freak esibito sul palco per tenere a bada la coscienza, di Bonolis nello specifico, e al tempo stesso presentando un’antologia di artisti underground, Il paese è reale, è azione situazionista, notevole. Così han fatto Manuel e la sua band, beccandosi le critiche di tradimento, ma procedendo per la loro strada.
Arriviamo a oggi. Esce la notizia di Manuel lì, dove un tempo era Morgan, altro artista di quella scena, certo, ma decisamente più votato alla platealità, e subito arrivano le accuse di tradimento. Tradimento di cosa? Del mondo da cui arriva, dell’indie. E qui scatta l’equivoco. Venerdì tutti, ma proprio tutti tutti, dando notizia del buon esito di questa prova hanno parlato di indie. Manuel Agnelli artista indie. Niente di più falso. È lo stesso Manuel a averlo ben spiegato, seppur nella prosopopea del dover raccontare una scelta personale, manco la sua carriera fosse oggetto di decisioni collettive. “Mettiamola così: prima di tradirlo, io sono stato tradito dal mio mondo e dall’ideale alternative”, ha dichiarato a Vanity Fair e un po’ a tutti. “La scelta di partecipare a X Factor è un segnale forte di rottura che voglio dare al mondo indie,” ha proseguito. “Io lo avevo scelto perché per me voleva dire libertà: non solo di fare la musica che volevo- quello è il minimo.” Non si è fermato, Manuel, e come non capirlo, “Quell’ambiente è cambiato radicalmente, è diventato conformista, di più: fascista,” ha aggiunto.
Ci sono le tavole della legge: devi comprare quella chitarra, usare quel suono, dire certe cose. L’alternative rock è stato svuolta dei suoi significati, così come prima è successo al punk, alla new wave, al grunge. Ormai è solo una schiera di fighetti che vivono con i genitore e hanno scelto un costume, e se tu non lo indossi sei uno sfigato
“Ci sono le tavole della legge: devi comprare quella chitarra, usare quel suono, dire certe cose. L’alternative rock è stato svuolta dei suoi significati, così come prima è successo al punk, alla new wave, al grunge. Ormai è solo una schiera di fighetti che vivono con i genitore e hanno scelto un costume, e se tu non lo indossi sei uno sfigato”. Boom. Il dado è tratto. Manuel Agnelli, padre dell’underground spara a zero sugli indie. Parole comprensibili, di più, condivisibili. Chi scrive lo sta dicendo da tempo, trattando gli artisti indie esattamente alla stregua degli artisti mainstream, perché la maschera da nano non equivale a essere davvero piccoli. Quando reiteratamente, anche in queste pagine, si è parlato di suonini finti, tutti uguali, di camice a scacchi, di barbe lunghe, di montature di occhiali spessi, di questo si dibatteva. Canzoncine con chitarrine e suonini, ricordate? L’indie è la divisa che le nuove generazioni hanno scelto di indossare, prendendo un luogo libero e trasformandolo in una caserma. Se qualcuno ha tradito non è certo chi c’era prima, chi ci ha provato. Quando Manuel, negli anni Novanta, cantava “Come pararsi il culo e la coscienza è il vero sballo/ Sabato in barca vela, lunedì al Leoncavallo”, non sapendolo, dipingeva non solo una parte dei suoi coetanei, ma quelli che stavano per arrivare a rompergli il giocattolo.
Vestirsi con le magliette stinte non era necessariamente essere punk, anzi spesso non lo era affatto. Lo stesso è adesso. Cantare canzoni piccoline indossando una barba lunga non fa di te un artista alternativo, fa di te uno che sceglie una categoria estetica, quella indie (che non ha nulla a che fare con l’essere indipendente, non venite a dire idiozie), e quindi diventa da una parte una scelta di comodo, di appartenenza, dall’altra l’impoverimento proprio delle categorie estetiche, lo svuotamento degli ideali.
Poi, è chiaro, Manuel Agnelli a X Factor funziona ma un po’ stride, perché sentirlo parlare di “sto cercando il nuovo Lou Reed” in quel contesto mette i brividi, ben sapendo che un nuovo Lou Reed non c’è e se ci fosse sarebbe altrove. Ma a cantare “E la grandezza della mia morale/ è proporzionale al mio successo” era lui, mica io. Quantomeno le premesse, però. sono giuste: sui giovani d’oggi ci scatarro, sui giovani d’oggi ci scatarro, ieri come adesso. Avanti tutta.