Sulla vendita del Milan non è ancora scritta l’ultima parola e fino alla data del closing, prevista a metà novembre, continueranno i tentativi di altri soggetti di rientrare in gioco. A rendere, per Berlusconi e il suo gruppo, l’attesa meno nervosa c’è la caparra di 100 milioni di euro, già entrata nelle casse di Fininvest. A quanto riportano fonti vicine all’operazione, starebbe ancora alla finestra una seconda cordata cinese, quella guidata da Steven Zheng e Sonny Wu. Si tratta di un gruppo di investitori che in precedenza faceva parte del veicolo che è arrivato effettivamente alla firma del preliminare. Come è noto, a pochi giorni dalla firma, la cordata si è spaccata e a prevalere è stata la forma attuale di “Sino-Europe Sports Investment Management”. Alla sua guida c’è l’imprenditore Li Yonghong e dietro di lui ci sono il fondo di private equity Haixia Capital e altri quattro o cinque imprenditori operanti in diversi settori.
Dopo i dubbi portati alla luce da Bloomberg nei giorni scorsi sulla solidità finanziaria di Sino-Europe e sulla presunta falsità di una garanzia presentata dal pool di investitori asiatici lo scorso 25 aprile, è arrivata la smentita da parte di Fininvest e Sino-Europe che hanno anche annunciato azioni legali. Chi segue la vicenda da vicino parla però di diversi scenari su cui si può ragionare. Nessuno di questi, a dire il vero, sembra preoccupare troppo Fininvest, che ha già ricevuto un quinto del cash concordato per la cessione (si arriva a 740 milioni considerando i debiti).
Il primo scenario prevede che il gruppo guidato dall’imprenditore Li Yonghong non trovi i 400 milioni di euro rimanenti entro metà novembre, termine previsto per il closing. A Fininvest, in quel caso, rimarrebbero i 100 milioni – quanto basta per un paio di stagioni di campagne acquisti dignitose. Nel secondo scenario, invece, il Milan non si limiterebbe a tenere i 100 milioni ma aggiungerebbe una causa internazionale, per recuperare anche eventuali danni di immagine. Date le difficoltà di una causa transnazionale, non sarebbe però un’ipotesi troppo concretizzabile.
Il terzo scenario vedrebbe ancora una volta un ritiro di mr. Li, i 100 milioni in tasca a Fininvest e, a sorpresa, il ritorno di Zheng e Wu, i quali sostengono di avere le spalle più robuste dei rivali. C’è chi si è spinto a pensare che le voci sulle carte false e sulla non sostenibilità di Sino-Europe siano state ispirate dagli ex compagni di cordata. Vale la pena di ricordare che la Sino-Europe Sports Investments viene fondata quando Sal Galatioto, un businessman influente nello sport americano, e il suo delfino Nicholas Gancikoff si accordano con Steven Zheng per trovare altri investitori. Arrivano così Li Yonghong, Sonny Wu e la sua Gsr Capital. Quando le trattative vanno per le lunghe e Fininvest fa pressioni sugli investitori (come ha ricostruito Il Corriere dello Sport), la cordata si spacca: da una parte Yonghong Li e Han Li, dall’altra parte Sonny Wu e Steven Zheng. Il Diavolo sceglie di premiare i primi e un argomento convincente sono i 100 milioni di euro messi sul piatto fin da subito come acconto.
Se anche l’operazione con Sino-Europe non andasse in fondo, a Fininvest rimarrebbero i 100 milioni, quanto basta per un paio di stagioni di campagne acquisti dignitose
Scommesse su come andrà a finire non se ne fanno, ma secondo persone vicine all’operazione lo scenario più probabile rimane il quarto e ultimo: che la Sino-Europe trovi i 400 milioni di euro rimanenti entro il 15 novembre, quando è atteso il closing finale. Da chi li troverà? È da escludere l’ipotesi circolata nelle scorse settimane di una quotazione immediata alla Borsa di Shanghai. Oltre a non esserci i tempi tecnici, non avrebbe senso una quotazione di una società con perdite pesanti come il Milan attuale. È più probabile un prestito ponte. Da parte di chi? La società sta sottoponendo il progetto a vari partner e avrebbe dichiarato di essere a buon punto nella raccolta, anche se è da capire se gli scoop circa la documentazione presentata abbiano prodotto contraccolpi. Fonti vicine alla trattativa non escludono che ci possa essere un intervento statale. Che, d’altra parte, sotto spoglie mentite o palesi, sarebbe qualcosa di già accaduto in altri deal simili.
Tra i principali investitori di Haixia Capital, a quanto si dice (le informazioni non sono pubbliche) ci sono la Sdic, State Development & Investment Corp., un enorme fondo sovrano, e la Fujian Investment & Development Group Co. Ltd, espressione del governo provinciale dello Fujian. Ci sono poi due fondi da Taiwan e Hong Kong. La società Haixia dichiara di gestire asset per 30 miliardi di renminbi (4 miliardi di euro). «Sino-Europe è come Biancaneve e i sette nani, conta davvero solo Haixia», dichiara un’altra fonte vicina alla vicenda. Il governo cinese, a quanto Linkiesta ha avuto modo di sapere, sarebbe tutt’altro che entusiasta all’idea di intervenire. Se lo dovesse fare sarebbe principalmente per evitare una figuraccia internazionale che minerebbe la fiducia delle società occidentali in trattative future. L’onda vera delle acquisizioni cinesi, secondo gli osservatori più attenti, in Italia deve ancora arrivare e se si diffonde un sentimento di sfiducia in queste prime compravendite a effetto, i contraccolpi sarebbero pesanti. Il governo di Pechino non ha fatto mistero di vedere quantomeno di buon occhio l’espansione internazionale del calcio, anche allo scopo di far crescere in patria il livello di questo sport. Avere buoni risultati nel calcio per Pechino significa veder crescere la propria reputazione internazionale.
Ma che cos’è Sino-Europe? La società è stata fondata il 26 maggio 2016 con un capitale di 100 milioni di renminbi (13 milioni di euro). Ha sede a Huzhou, nella provincia dello Zhejiang ed è intestata a tale Chen Huashan. Di quest’uomo si sa pochissimo e quando i giornalisti hanno cercato di contattarlo, nell’ufficio non c’era nessuno. L’informatissimo Carlo Festa, del Sole 24 Ore, ha ricostruito che in giugno questo Huashan ha aperto altre due società d’investimento, che hanno stesso indirizzo e piano della Sino-Europe Sports. Di Haixia si è già detto. Il terzo nome noto è quello dello Yongda Group, una società quotata con sede nella provincia settentrionale di Jilin. È un produttore di apparecchiature elettroniche: dai contatori per l’energia a vari tipi di interruttori. Dal 2015 ha cercato nuove aree di investimento. Il 2 giugno scorso ha annunciato un investimento per 300 milioni di renminbi in un fondo di private equity dello Jilin, che dopo si è rivelato essere quello che sta comprando il Milan. Anche sullo stesso Li Yonghong si sa poco. È nato a Hong Kong nel 1969, il suo deal più noto è stato relativo alla società quotata Shanghai Doulun Industry, nel 2011. L’ha venduta nel luglio 2012, cosa che gli ha reso 340 milioni di renminbi. La sua attività è poco nota. Su di lui c’è la notizia di una multa di circa 500mila renminbi (circa 80mila euro) da parte dello Shanghai Stock Exchange a causa di alcune regolarità in Borsa.
Se il governo cinese dovesse intervenire, sarebbe principalmente per evitare una figuraccia internazionale che minerebbe la fiducia delle società occidentali nelle trattative future
A parte il profilo degli operatori, a far discutere è stata la vicenda della presunta falsa documentazione. Dopo Bloomberg è stato Caixin, uno dei più importanti quotidiani cinesi, a parlare di altri documenti falsi presentati da YongHong Li: in quel caso riguarderebbero la Dongguan Bank e non la Jiangsu Bank citata da Bloomberg. Anche per questi articoli Fininvest e Sino-Europe hanno annunciato azioni legali.
Le perplessità, va detto, sono forti anche se non soprattutto in Cina. Si parla anche di nervosismo a livello di fonti diplomatiche. «Bisogna dire con chiarezza che le due diligence nelle operazioni tra Cina e Italia vanno fatte in maniera seria», commenta Sameh El-Shahat, presidente di China-i, società di advisory su M&A and risk management con sedi a Pechino e in Italia. «Non basta che ci siano i soldi per fare gli investimenti. Bisogna rispettare le regole per fare business e quelle non scritte dei Paesi in cui si fanno le acquisizioni. È nell’interesse di tutti, anche dei cinesi. Se ci saranno deal portati avanti in maniera non trasparente in questa fase, ci può essere un danno di immagine che può condizionare gli investimenti futuri».