Siria, l’accordo placebo tra Usa e Russia in realtà non cambierà nulla

Casa Bianca e Cremlino cercano di impedire i conflitti interni pur continuando a combattere l’Isis. Ma ma nel complesso scacchiere siriano ci sarà pace solo dopo un accordo tra Iran e Arabia

Oggi comincia la tregua in Siria negoziata da Stati Uniti e Russia. I termini sono sostanzialmente gli stessi degli accordi precedenti: Mosca impedirà ad Assad e alle milizie sciite che lo appoggiano di attaccare i ribelli “moderati”; gli Usa impediranno ai ribelli “moderati” di attaccare il regime e i curdi, e ai curdi di rispondere (parrebbe quindi compresa nella tregua anche la Turchia, che di recente ha invaso il nord della Siria in ottica anti-curda); l’Isis, la nuova al Nousra e altre fazioni jihadiste saranno escluse e, anzi, se il cessate il fuoco dovesse reggere per una settimana, Washington e Mosca potrebbero condurre raid congiunti contro “i terroristi”; nel frattempo si cercherà di alleviare la sofferenza della popolazione civile, devastante in alcune aree sotto assedio come per esempio ad Aleppo.

L’annuncio dell’accordo tra Casa Bianca e Cremlino è arrivato dopo mesi di trattative e non per bocca dei presidenti, Putin e Obama, incontratisi nella cornice del G20 ospitato pochi giorni fa dalla Cina. Sono stati i rispettivi ministri degli Esteri, Lavrov e Kerry, a dare la notizia da Ginevra. Una notizia certamente positiva ma la cui portata – e di qui nasce il sospetto che i presidenti russo e americano non abbiano voluto metterci la faccia – è ridimensionata dai fallimenti di analoghi esperimenti nel passato e dal permanere delle criticità che finora hanno reso impossibile la pace.

Sul rispetto della tregua durante i primi sette giorni c’è moderato ottimismo tra gli esperti. Non fosse altro che giunge in un momento in cui esiste già una situazione di stallo sul terreno: ad Aleppo la battaglia che è infuriata negli ultimi mesi si è conclusa con una vittoria (temporanea?) del regime. Dopo aver chiuso da nord i quartieri in mano ai ribelli in un assedio senza vie d’uscita a fine luglio, aver subito la reazione furiosa degli insorti che ha aperto una via di uscita a sud a metà agosto, e aver infine chiuso a inizio settembre anche quest’ultima falla che era stata aperta, le truppe di Assad non vogliono ora avanzare nella città rischiando di esporsi a uno stillicidio.

L’attesa – complice, pare, l’accordo tra Assad e Erdogan, in base a cui il secondo ha potuto invadere la Siria senza ritorsioni (tanto del regime quanto della Russia) per stoppare l’avanzata dei curdi, ma il primo ha ottenuto in cambio l’interruzione dell’invio di armi e munizioni dalla Turchia ai ribelli – conviene ai lealisti.
Dal canto loro i ribelli hanno bisogno di tempo per ri-organizzarsi e soprattutto per valutare come si siano disposte le sponde di cui hanno goduto finora (la Turchia ha cambiato totalmente approccio alla crisi siriana, di conseguenza le monarchie del Golfo potrebbero ri-aumentare il proprio impegno – anche se la guerra in Yemen ha finora risucchiato Riad -, gli Stati Uniti hanno ancora una linea incerta, la Giordania prosegue una sorta di triplo gioco). Infine la Turchia, che ha sigillato il proprio confine sud tra Jarablus e al-Rai liberando l’area dall’Isis, e i curdi siriani sono sull’orlo di un conflitto aperto. Ankara vorrebbe, avanzando da nord verso al-Bab, inserire un cuneo di “suoi” ribelli tra i cantoni curdi già liberati (Kobane e Cizre da un lato, Afrin dall’altro), impedendo così l’unificazione del Kurdistan siriano (il Rojava). I curdi, di contro, avanzando tanto da est quanto da ovest verso al-Bab puntano esattamente a questo obiettivo. Entrambi sono alleati degli Usa (la Turchia nella Nato, i curdi siriani nella coalizione anti-Isis) e, al momento, guadagnare tempo non dispiace a nessuno. Ma lo scontro sembra solo rimandato.

Di qui le perplessità degli analisti sulla tenuta della tregua. Potrà durare una settimana, forse anche qualche mese, ma non sembra ancora ci siano le condizioni per sperare che sia stata finalmente aperta la strada verso una reale pacificazione.

Pesa in primo luogo la confusione e la frammentarietà del fronte ribelle, dove sigle jihadiste e ribelli “moderati” sono spesso mescolati, talvolta in modo indistinguibile, in nome della comune lotta contro il regime. Non sarà facile separare le prime dai secondi e, questo è il timore di Washington, il Cremlino potrebbe approfittarne per colpire indiscriminatamente i propri nemici dietro il paravento della legittimità internazionale. Poi c’è il timore che Assad non possa (e forse nemmeno voglia) controllare la galassia di milizie sciite – iraniani, iracheni, libanesi e afghani che rispondono più a Teheran che a Damasco – ed evitare che l’odio intra-religioso coi sunniti faccia deragliare i tentativi di pace. Un rischio questo che, se Riad decidesse di aumentare la propria ingerenza in Siria, sarebbe quasi inevitabile. Lo scontro tra Iran e Arabia Saudita negli ultimi anni ha infatti fomentato la faida sunniti-sciiti come mai prima.

Una concreta possibilità di pace passa dunque necessariamente da un accordo tra le potenze regionali (Iran, Arabia Saudita, Turchia) e internazionali (Russia e Usa) coinvolte nel Grande Gioco su come spartirsi le aree di influenza in tutto il Medio Oriente

​Infine, come si diceva, la questione curdo-turca: i curdi difficilmente rinunceranno all’autonomia, se non indipendenza, del Rojava, dopo aver combattuto per anni quasi da soli contro il Califfato. Di contro Ankara non può permettere che una entità curda autonoma, oltretutto legata a partiti marxisti (PYD curdo-siriano e, di conseguenza, PKK curdo-turco), nasca al suo confine meridionale.

Una concreta possibilità di pace passa dunque necessariamente da un accordo tra le potenze regionali (Iran, Arabia Saudita, Turchia) e internazionali (Russia e Usa) coinvolte nel Grande Gioco su come spartirsi le aree di influenza in tutto il Medio Oriente. La partita siriana è infatti intrinsecamente collegata con quella irachena, con la questione curda, con la faida tra Riad e Teheran, con il nuovo ruolo della Russia nella regione, con la direzione che intende prendere la Turchia in politica estera, con il baricentro degli interessi strategici americani, mai così mobile come negli ultimi anni. Fino a quel momento questo genere di accordi può sicuramente servire per ridurre la drammaticità del conflitto nelle sue fasi più convulse, ma non sembra possa essere risolutivo.

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