Tommaso Labranca, trash un cazzo

Citare il suo nome nei discorsi inerenti al trash del trash che ormai ha trovato ampiamente asilo nel nostro immaginario. Il fatto di aver decodificato a nostro beneficio il concetto di trash, emulazione fallita del trash, lo ha relegato però a un ruolo non suo

Dovremmo fare una moratoria, penso, mentre sto tornando a casa dal non luogo dentro il non quartiere nel quale si è tenuta la non orazione funebre di Tommaso Labranca, moratoria che sancisce che mai, dico mai, categoricamente mai venga citata la parola trash in un discorso che riguarda Tommaso Labranca. Sempre che da domani tornino a esserci discorsi su Tommaso Labranca, raffreddato il suo corpo morto e sbollita la smania da lai online e su carta. Di più, una moratoria che impedisca di citare il nome di Tommaso Labranca a cazzo di cane nei discorsi inerenti al trash del trash che ormai ha trovato ampiamente asilo nel nostro immaginario, e che con il trash decodificato da Tommaso Labranca nei primi anni novanta nulla ha a che spartire, essendone una deriva sentimentale (si guardi alla De Filippi, per dire, ma anche a quel che succede quotidianamente sui social, luoghi non a caso da cui Labranca era scappato a gambe levate, come del resto dal web tutto, da cui aveva cancellato ogni traccia di sé, prima di andarsene addirittura dal mondo).

La premessa a tutto questo è che, l’altro giorno, potrebbe esservi capitato di saperlo, è morto Tommaso Labranca, cinquantaquattro anni, una manciata di libri fondamentali dati alle stampe nel corso di circa venti anni, prima per Castelvecchi, da Andy Warhol era un coatto a L’estasi del pecoreccio, poi per Stile Libero Einaudi, che in qualche modo lo collocò, erroneamente, nell’orbita dei cannibali, cristallizzazioni epica dei figli del Gruppo 63 dagli stessi reduci del Gruppo 63 epicizzati (Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti, su tutti), e poi via via per editori sempre più piccoli, fino a arrivare a stamparsi da solo, con la 20090 e poi la microscopica e lodevole Tipografia Helvetica, casa editrice dell’antiquario Milo Miller che ha dato alle stampe anche l’omonima rivista d’arte varia da Labranca diretta. Un esilio, quello editoriale di Labranca, andato di pari passo con un esilio reale, dal centro esatto di dove avvenivano le cose, con il suo uccidere, gli sia reso grazie, Tondelli a beneficio di una generazione di scrittori, al suo inventarsi un nostalgismo buonista poi diventata cifra principale del Fabio Fazio di Anima Mia, sempre con un piglio da entomologo misantropo, infastidito dal suo non essere risconosciuto per l’intellettuale che era, scambiato, vai a capire perché, per un simpatico burlone. Il fatto di aver decodificato a beneficio del popolo italico il concetto di trash, emulazione fallita del trash, lo ha relegato, è successo anche in questi giorni, a un ruolo non suo. Lui che si è sempre dedicato a studiare il segno, quello stesso segno che oggi si è sgretolato, la merce, oggi divenuta merce in assenza dell’io, la non tragicità della letteratura contemporanea, fatto quest’ultimo, che gli ha creato i malumori di quei colleghi che erano usciti allo scoperto insieme a lui, tragicamente assenti, come del resto lo stesso Fazio e i tanti che lo hanno pianto in queste ore, lì, nel non luogo, una Sala del Commiato, nel non quartiere, Rogoredo, dentro la quale si è tenuta la non orazione funebre, anche se un prete, in effetti, a fare un’orazione funebre ci ha provato, nonostante tutto e tutti. Lui, intellettuale vero, si è trovato impigliato in un ruolo farsesco, citato, le rare volte che capitava, come se tra lui e Uomini e donne ci fosse un legame, come se un Costantino Della Gherardesca gli fosse in qualche modo parente.

Il fatto di aver decodificato a beneficio del popolo italico il concetto di trash, emulazione fallita del trash, lo ha relegato, è successo anche in questi giorni, a un ruolo non suo.

Al suo non funerale, che inizialmente si pensava sarebbe stato celebrato all’Ikea, eravamo presenti in tanti, ma in pochi tra quanti hanno condiviso con lui un’importante fetta di recente storia della cultura italiana. Cultura che, per vezzo, andrebbe definita pop, ma che pop, a ben vedere, non è. Chiaro, vedere, di fronte alla salma che poco letterariamente è stata riposta nella bara Orietta Berti avrebbe potuto dare al tutto un tocco di dadaismo che, si pensa, gli sarebbe piaciuto, specie nel centenario della nascita del dadaismo stesso, ma almeno Orietta Berti c’era. E c’era Marco Drago, romanziere che nella sua rivista Il Maltese Narrazioni aveva ospitato la raccolta di racconti dedicata al cantautore Garbo, raccolta che aveva dato vita ai labranchiani Nevromantici e all’album garbiano Up to the line. C’era Giuseppe Genna, uno dei pochi ad aver decodificato la decodifica labranchiana del tondellismo. C’era Gianni Biondillo, che con i suoi studi sulla psicogeografia, con me condivisi, ha in qualche modo fatto da sponda a certe derive guydebordiane del nostro. C’erano Carlo Pastore, giovane mente fertile della radiofonia che di Labranca si è abbeverato, per sua stessa ammissione. C’era Omar Pedrini, l’assessore Del Corno, senza la zavorra dei gonfaloni comunali, c’era Stefano Bartezzaghi, c’era Pietro Galeotti di Linus, e c’erano tanti amici e conoscenti di Tommaso Labranca. Ma mancava in blocco l’editoria, gli editori. Mancavano Fazio, la Bignardi, la Zucconi, c’era, è vero, Francesco Specchia, in rappresentanta dell’unico giornale che gli ha dato da mangiare, Libero, alla faccia dell’anima bella di un Christian Raimo, e c’era anche la Lombardi, editor della Rizzoli che, con le varie biografie di Taricone, Michael Jackson e affini, gli ha permesso di andare avanti, mentre con la scusa del suo carattere ostile tutti gli voltavano le spalle.

Salutandoci, mentre si faticava un po’ a trattenere le risate ripensando a quando con Genna aveva chiamato Maria Giovanna Elmi, facendo uno scherzo telefonico sull’invenzione dell’archeologia televisiva, o di quella volta che, chi come me c’era non può dimenticarlo, ha fatto l’alba ballando techno alla Fonderia Italghisa con Edoardo Sanguineti, con l’editore Miller ci si è riproposti di dare alle stampe un ultimo numero di Tipografia Helvetica, coordinata da Gianni Biondillo. Questa, quindi, è anche una chiamata alle armi. Prima che il suo nome finisca di nuovo nel dimenticatoio, perché di questi tempi anche il lutto dura uno zot, celebriamo una delle più fertili menti della nostra epoca. E ricordatevi, guai a citare il finto trash a cui ci ha giustamente abbandonato.

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