Pretesto: è questa la parola che più di un osservatore usa per parlare della polemica lanciata contro il governo italiano da James Hogan, l’australiano presidente e ad di Etihad e vicepresidente di Alitalia. In un’intervista al Corriere della Sera dello scorso 6 ottobre, Hogan si è lamentato con l’esecutivo per due motivi: non avrebbe rispettato un accordo per un uso più intenso dell’aeroporto cittadino di Milano Linate, aprendolo con un decreto al traffico intercontinentale. E non avrebbe stanziato i soldi, circa 20 milioni, per promuovere il turismo in Italia. Linate sarebbe un pretesto perché il vero obiettivo dell’intervista sarebbe preparare il terreno per un piano di tagli del personale. Ne sono convinti i sindacati, ma anche osservatori esterni, secondo i quali c’è da chiedersi anche se le difficoltà fatte emergere adesso non fossero in realtà già note nel 2014, quando gli emiratini di Etihad entrarono con il 49% in Alitalia.
Il motivo di queste preoccupazioni è da ricercarsi nei numeri della compagnia ex di bandiera. Quelli relativi al 2016 non sono noti, anche se il presidente di Alitalia, Luca Cordero di Montezemolo, ha parlato di perdite per 500mila euro al giorno. Ma quelli del 2015 fanno capire che le cose non vanno affatto come dovrebbero. I comunicati stampa fanno il loro dovere e sottolineano la diminuzione delle perdite da 580 a 199 milioni nel 2015. Ma basta guardare delle analisi senza guanti di velluto per un quadro più realistico. Come quella fatta per Avionews da Gaetano Intrieri, docente di controllo di gestione all’Università di Tor Vergata (Roma) e consulente aeronautico. I conti in tasca ad Alitalia dicono soprattutto due cose: i costi sono ancora fuori controllo e il risultato operativo sarebbe stato anche peggiore di quello effettivo se non si fosse spinto così tanto nella capitalizzazione dei costi, ossia nell’imputare allo stato patrimoniale voci che sarebbe stato più prudente inserire tra i costi.
È tutto regolare, come premette Intrieri, ma i dati sono comunque da osservare attentamente. Soprattutto in alcune voci. «Alitalia, in relazione alla flotta di aeromobili di proprietà, imputa ad attività patrimoniali complessivamente quasi 70 milioni di euro», si legge. Di questi, «54 milioni sono costi puri che è lecito capitalizzare solo per creare un rateo di costo, ma che debbono essere quanto meno per il 65% spesati nell’esercizio in corso. Ergo, solo in relazione agli aeromobili di proprietà, ci sono ad esser buoni 35 milioni di costi che vengono capitalizzati, e sottolineo ad essere buoni». Lo stesso discorso vale per la capitalizzazione “monstre” delle spese su aerei di terzi: «Sarebbe stato saggio considerare almeno ulteriori 35 milioni di euro da spesare a costo – si legge -. Si è scelta invece la politica degli struzzi, rinviando il problema» agli esercizi futuri. Per i quali il peso degli ammortamenti negli anni prossimi, prevede l’analista, «certamente costringerà i soci ad una ricapitalizzazione che ormai è inevitabile».
I conti in tasca ad Alitalia dicono soprattutto due cose: i costi sono ancora fuori controllo e il risultato operativo sarebbe stato anche peggiore di quello effettivo se non si fosse spinto così tanto nella capitalizzazione delle spese, ossia nell’imputare allo stato patrimoniale voci che sarebbe stato più prudente inserire tra i costi
Quanto ai costi, dall’analisi emergono aspetti altrettanto sorprendenti. Primo tra tutti il fatto che il problema di Alitalia, contrariamente a quanto si è soliti pensare, non è il costo del personale: è infatti pari a quello medio delle altre compagnie europee, low cost incluse. Non che questo significhi appoggiare gli scioperi fatti a settembre per difendere il “privilegio” di volare gratis per raggiungere le sedi di lavoro. Ma quanto meno serve a capire i segni di nervosismo che arrivano dal personale. Va aggiunto che i dati non dicono nulla sulla produttività, parametro ancora più importante del costo del lavoro. I costi fuori controllo, spiega il docente di Tor Vergata, sono altri: sulla manutenzione la cifra è «almeno del 40% superiore a quella media del panorama internazionale», nota Intrieri, e vi sono circa 150 milioni di manutenzione annua che potrebbero essere risparmiati. Per i costi di handling (20% superiori alla media) i risparmi raggiungibili sarebbero di 60 milioni annui. Per le spese di vendita 20 milioni. Per il carburante tra 45 e 100 milioni. E anche per le spese di noleggio la percentuale di incidenza sui ricavi è considerata altissima.
In questo contesto di difficoltà Nino Cortorillo, segretario nazionale della Filt-Cgil, legge l’intervista di Hogan al Corriere come «qualcosa di propedeutico ad altre misure», cioè a nuovi tagli dopo i 2.000 di due anni fa. «Tagliare, però, non risolverebbe le difficoltà strategiche di Alitalia», aggiunge. «Dopo due anni dall’ingresso di Etihad, la compagnia ha ancora un problema di posizionamento». Detto con uno slogan, la compagnia è troppo piccola per essere grande e troppo grande per essere piccola (copyright Gaetano Intrieri). Ossia: ha pochi aerei di lungo raggio, 24, poco più di un quarto di quelli di Lufthansa, e per spostarsi in maniera più decisa verso il più profittevole lungo raggio avrebbe bisogno, sottolinea il sindacalista, di investimenti tra uno e due miliardi di euro.
L’idea che la soluzione sia semplicemente quella di ridurre il breve raggio e incrementare i voli intercontinentali pecca però di ingenuità. Lo spiega Andrea Giuricin, docente di Economia dei trasporti all’Università Bicocca di Milano: le compagnie di bandiera hanno bisogno di voli di breve raggio che facciano da feederaggio per quelli di lungo, cioè che portino i passeggeri dagli aeroporti periferici agli hub. «Senza feederaggio, i voli non si riempiono». Così fanno Air France e Lufthansa, che perdono sul breve ma riescono grazie a network intercontinentali estesi a recuperare. E anche loro, come spiegava uno studio recente di McKinsey, sono in grave difficoltà nella morsa di low cost e compagnie del Golfo. Alitalia non ha un proprio network internazionale esteso e questo è un male, ma potrebbe appoggiarsi a quello di Etihad. Per ora non sta riuscendoci.
Il problema di Alitalia, contrariamente a quanto si è soliti pensare, non è il costo del personale: sarebbe infatti pari a quello medio delle altre compagnie europee, low cost incluse
La compagnia del Golfo ha avuto un problema anche in Germania, con un’altra controllata, Air Berlin. Dopo un lustro di perdite ha cambiato strategia: 40 aeromobili sono stati affittati alla rivale Lufthansa, mentre le attività legate al segmento del turismo saranno trasferite a un nuovo gruppo formato da da Etihad Airways e dal colosso tedesco dei viaggi TUI AG. «Di fatto si tratta di una resa ai rivali di Lufthansa», nota Cortorillo, mentre Giuricin non esclude che quel che è accaduto in Germania possa essere un segnale preoccupante per Alitalia. «Ma se smantellasse anche in Italia – aggiunge – per Etihad significherebbe abbandonare i sogni di espansione in Europa».
Uno dei punti su cui Hogan ha insistito di più, al Corriere, è Linate. Il piano di Alitalia sarebbe quello, con tutta evidenza, di far partire dallo scalo cittadino voli quantomeno verso l’hub di Abu Dhabi. Sacrificando quindi Malpensa. Come mai? Le ragioni c’entrano solo in parte con l’obiettiva comodità di Linate rispetto a Malpensa. Il motivo è più industriale: se un passeggero arriva a Malpensa, può tranquillamente proseguire con un aereo di un’altra compagnia (come Emirates). Linate sarebbe invece un porto più tranquillo, anche se la sua storia consiglia prudenza. Pensiamo al decreto Lupi, ultimo di una serie di decreti che ne hanno regolato il traffico: in vista dell’Expo l’ex ministro dei Trasporti aprì il traffico di Linate non più alle sole tratte verso le capitali europee e agli hub con più di 40 milioni di passeggeri (leggi Francoforte), ma anche ad altre città non capitali. Air Berlin (gruppo Etihad) ne approfittò con due rotte, che peraltro chiuse poco dopo. In seguito ai ricorsi di alcune compagnie aeree europee, tra cui Lufthansa, nel dicembre 2015 arrivò da Bruxelles la bocciatura del decreto Lupi.
Se Alitalia vuole sacrificare Malpensa per Linate, la comodità per i passeggeri c’entra fino a un certo punto. Il motivo è industriale: se un passeggero arriva a Malpensa, può tranquillamente proseguire con un aereo di un’altra compagnia
Da allora si è in attesa di un nuovo decreto, che si chiamerà probabilmente Delrio. Sarà nel segno di una liberalizzazione verso i voli internazionali? Molti se lo augurano, dato che ormai Malpensa non è più un hub (manca una compagnia di riferimento) e Linate ha ancora circa 5 milioni di passeggeri di capacità potenziale inespressa. Spiega Giuricin: «Se c’è domanda, si arriverà al limite fisiologico di 25 movimenti all’ora». A quel punto, sarà necessario individuare dei criteri per stabilire le priorità ma questo, aggiunge il docente della Bicocca, non sarebbe un problema: «È possibile fare un decreto che non favorisca una società rispetto alle altre, tanto meno l’incumbent. In quel caso l’Europa non lo boccerebbe». Non è d’accordo Cortorillo, secondo cui Linate ha limiti strutturali da non sottovalutare e il rischio di una bocciatura di un decreto è molto concreto.
Marco Ponti, docente di economia dei trasporti al Politecnico di Milano, da sempre favorevole a un uso più intensivo di Linate («Quale viaggiatore non sarebbe contento?»), non nasconde l’esistenza di limiti fisici, soprattutto per i voli intercontinentali. Tuttavia, precisa, «i voli richiesti non sono intercontinentali, ma solo extraeuropei, per cui non ci sono ostacoli tecnici. La capacità c’è, quindi non vedo ostacoli, purché non siano limitati ad Alitalia. La liberalizzazione fa sempre bene agli utenti, assai meno ai monopolisti, siano essi gestori aeroportuali o compagnie “di bandiera”, o pseudo tali».
Da Sea, la società di gestione degli aeroporti di Milano, dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia, per il momento non sono arrivati commenti alle domande de Linkiesta circa la loro posizione sull’uso di Linate per i voli extra-europei.