Captain Fantastic ci sputa in faccia la verità: siamo noi quelli brutti

L'ultima opera del regista Matt Ross, interpretata da un grande Viggo Mortensen, è un film-favola sulla verità e sull'ipocrisia della nostra epoca post tutto e ha un potere catartico, ma soltanto se siamo disposti ad accettare la lezione e non mentire, soprattutto a noi stessi

A leggere soltanto il titolo, Captain Fantastic, il nuovo film di Matt Ross acclamato da pubblico e critica al festival di Roma, il rischio è che la prima cosa che pensi è un film di supereroi. Uno degli innumerevoli titoli della grande guerra tra Marvel e DC. Uno di quei film fatti di personaggi in tutine aderenti che a colpi di superpoteri si battono contro forze soverchianti e malvagie contro civiltà malvagie o cattivoni ricchissimi e senza scrupoli né morale. E invece no. Ma proprio per niente. Perché quello che aspetta lo spettatore al cinema è l’esatto opposto: niente tutine, niente superpoteri, niente cattivoni senza scrupoli, niente città in fiamme. Semplicemente una favola sulla verità, sulla nostra quotidiana alienazione, sulle contraddizioni di questa nostra epoca post tutto, postindustriale, postmoderna, postacapitalistica che sempre più spesso ci sembra quasi postumana.

Captain Fantastic è una favola. E in questa affermazione c’è contemporaneamente la sua grandezza e il suo più grande difetto. C’è la grandezza di poterci sospendere l’incredulità nel giro di due scene, portandoci da subito nel bel mezzo della foresta dove una tribù di ragazzini tendono un agguato a un cervo. Sono guidati da un uomo, Ben, interpretato da un bravissimo Viggo Mortensen.

A un tratto, il più grande dei ragazzi sbuca da un cespuglio con mossa da cacciatore provetto e sgozza il cervo. Scorre il sangue nel fiume, mentre il ragazzo resta in piedi, inespressivo, da bestia, pensa lo spettatore nel calore confortevole della sua poltrona. L’uomo si china, sventra l’animale e gli strappa un organo il fegato. Con la mano lorda di sangue segna il viso del ragazzo: «Today. The boy is dead», dice con cadenza rituale. «And in his place. Is a man».

Quello che nella prima scena è un maschio con la sua prole, nel giro di dieci minuti è già un uomo con i suoi figli. La tribù è una famiglia e i suoi piccoli e violenti componenti non sono affatto quello che sembravano all’inizio. O meglio, non sono solo quello. Sono contraddittori? Sì. Se iniziare la giornata uccidendo a mani nude un animale di grossa taglia mangiandogli il fegato e finirla leggendo ogni voce alla lettera J dell’Enciclopedia Brittanica, o Armi acciaio e malattie di Jared Diamond, o il Fratelli Karamazov di Dostojievski, allora sì. Sono contraddittori.

La verità è cinica, alle volte. Ma non solo. La verità è un’arma, e quando la tribù si trova a fare i conti con la realtà esterna, quell’arma è di una potenza indescrivibile. Distrugge come un fiume in piena le ipocrisie di una società che, a furia di mentire a se stessa, si è mostrificata, abbrutita.

In quella piccola repubblica platonica convivono amore e violenza, cultura e fisicità, vita e morte. Su una cosa soltanto la repubblica di Ben non permette incoerenza: la verità. È l’unica regola del branco. Non si mente, mai. Né agli altri, né a se stessi. Come non si nasconde a un bambino di sei anni e si risponde a tutti i suoi perché, anche se riguardano la dinamica del sesso e sul suo significato: «È quando un uomo infila il suo pene nella vagina di una donna», spiega Ben al piccolo e, al perché del figlio, continua: «Perché dà a entrambi piacere. E perché la combinazione dello sperma dell’uomo con gli ovuli della donna crea un bambino e continua la razza umana».

Dire la verità sempre. Anche a costo di dirci cose che non vogliamo sentire. Perché dire la verità significa dire la verità anche a se stessi, non nascondersi i problemi, come ad esempio affrontare la morte di una madre con una lucidità che a tratti spaventa l’impoltronato spettatore. La verità è cinica, alle volte. Ma non solo. La verità è un’arma, e quando la tribù si trova a fare i conti con la realtà esterna, quell’arma è di una potenza indescrivibile. Distrugge come un fiume in piena le ipocrisie di una società che, a furia di mentire a se stessa, si è mostrificata, abbrutita. Tanto da seminare il dubbio che le bestie, in fin dei conti, siano quelle che vivono in città, che mangiano veleno, che hanno paura persino della propria ombra, che accettano passivamente le regole di un gioco che è diventato una trappola di cui non si ricordano nemmeno più le regole. Né che è un gioco, una finzione.

Se il pregio di Captain Fantastic è il saper prendere a pugni le nostre convinzioni ridendo, il suo limite è l’essere ingenuo. Ma non c’è da stupirsi, perché le favole, si sa, sparano a salve. E al posto di grandi M16 d’assalto hanno in dotazione quei fucili di legno con il tappo di sughero attaccato alla canna con un filo di spago. E per farli sparare, oltre a mirare e muovere il dito su un grilletto inesistente, bisogna urlare forte BANG. Ma soprattutto bisogna crederci.

Captain Fantastic, se si sta alle regole del suo gioco ha un effetto liberatorio e disintossicante. Perché, se ci si crede fino in fondo, quel BANG diventa uno sparo e quel tappo di sughero un proiettile d’argento sparato in faccia alla nostra ipocrisia. Perché ci piacerebbe essere Ben, o uno a caso dei suoi meravigliosi figli. Ma, se non siamo ipocriti e se nel confort di quella poltroncina al caldo abbiamo imparato la lezione, allora non possiamo più mentire a noi stessi: noi, lì in mezzo, siamo quelli brutti.

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