Si intitola Coraggio (Feltrinelli, pp 112, 10 Euro) e sulla copertina azzurra, il colore della diplomazia, della lealtà e dell’idealismo, oltre al titolo, al simbolo della casa editrice Feltrinelli e al nome dell’autore, il giornalista Gabriele Romagnoli, campeggia una piccola stella a cinque punte. È una medaglia. Una medaglia al valore civile che la fondazione Carnagie insignì a un tale Antonio Sacco, un operaio italiano emigrato in Francia che un giorno, senza pensarci più del tempo di un respiro, si gettò nelle acque del Rodano rischiando la propria vita per salvare quella di una bambina.
È un libro retorico, questo di Romagnoli? Sì, certamente, lo è. Come lo sono queste righe. Ma d’altronde, come potrebbe non essere retorica la storia di un’indagine su un cittadino ordinario in tutto, non particolarmente impavido tranne che per quella manciata di secondi in cui salvò, insieme a un altro francese, la vita di quella bambina senza nome? Come potrebbe non esserlo, una storia che parte da Parigi, una città che con la paura sta facendo i conti da quasi due anni, ogni minuto.
È impossibile restare impassibili di fronte alle storie che si affastellano intorno a quella del Botonì, il Bell’Antonio. Sono storie che parlano di donne e uomini normali, esattamente come noi, che in un momento preciso della loro vita, durato pochi istanti, probabilmente senza pensarci, assecondando un istinto e una natura che nessuno di noi può prevedere, fanno un passo in avanti e affrontano la realtà.
Non importa se ti chiami Valeria Solesin, Andrew Sumers Rowan, Eric Abidal o Ana Damian. Non importa se sei una giovane studentessa, un capitano dell’esercito statunitense, un ricco e famoso calciatore o una ragazza rumena scappata dalla povertà. E in fondo, e questa è la vera forza del libro, non importa se il tuo passo avanti ti porta alla morte o alla vita, a salvare gli altri o a salvare te stesso, ad affrontare la povertà o la malattia. L’unica cosa che importa è guardare negli occhi la paura e affrontarla, fare il passo in avanti, come quello di Mike-È-Michael del recentissimo film di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, e tornare ad essere liberi.
«Era da tempo che volevo scrivere qualcosa contro la paura», ci racconta Gabriele Romagnoli alla domanda di rito sull’ispirazione che ha generato questo libro, «perché è un termine che si trova sempre di più scritto nei titoli dei giornali e dei libri, in una sorta di macchina della panico che credo sia necessario fermare. Ma anche per un fatto personale che mi ha molto colpito».
Quale?
A Pasqua, un amico mi ha confessato di aver annullato un viaggio a Londra perché i suoi figli, di 15 e di 17 anni, avevano paura di trovarsi nella metropolitana di Londra. A quel punto ho pensato che se questo è il livello voleva dire che ci trovavamo in un clima da macchina del panico.
Di che tipo di coraggio abbiamo bisogno?
Ci serve soprattutto un tipo di coraggio che è il coraggio quotidiano, che non è solo non aver paura di poter incappare in attacchi terroristici o non aver paura della morte, ma proprio quel coraggio inteso come atteggiamento contrario all’accettazione, quasi fosse ineluttabile, del timore diffuso a tutti i livelli della nostra società che non si possa fare niente per cambiare le cose. Non è ammissibile che ci ripariamo dietro il classico “Così va il mondo”. Coraggio è anche voler cambiarle, quelle cose. È anche non accettare il mondo così com’è con tutte le sue storture, smettere di lamentarsi o di trovare scuse e agire.
Come mai hai usato come colonna vertebrale del tuoi libro la storia di Antonio Sacco?
Quella è stata la molla decisiva, in effetti. Perché io mi decido veramente a fare le cose quando trovo una storia esemplare a cui appendere tutto. Perché senza una storia non c’è un esempio chiaro. Andare alla ricerca di una storia è quello che ho fatto per tutta la vita ed è proprio mentre cercavo la verità dietro a quella medaglia data a quell’eroe sconosciuto, mentre giravo per Parigi, per gli archivi nazionali, che riflettevo sul senso del coraggio in queste due forme, quella più estrema e quella più ordinaria.
Credi che abbiamo bisogno di più coraggio che in passato? Perché?
Sì e credo che il motivo sia il fatto che si sono alzate le soglie opposte. La percezione del pericolo che stiamo correndo è eccessiva rispetto alla realtà. Noi occidentali ci stiamo raccontando un mondo molto più pericoloso di quello che in effetti ci tocca vivere. Se chiedi a un italiano quale sia la sua sensazione di allerta attentati in questo momento ti dirà quasi certamente altissima. In realtà, anche se paragonato all’arco stesso della mia vita, questo periodo è paradossalmente abbastanza tranquillo. O almeno, non ho la sensazione di vivere in un mondo così pericoloso, perché alla fine i conflitti sono abbastanza circoscritti e localizzati.
In questo momento mi trovo a Parigi ed è difficile pensare agli attentati come una cosa lontana…
È vero, i fatti di Parigi hanno avuto un potere di forte spavento su tutti noi. Ma io credo che ci spaventino di più le modalità che altro. Ci spaventano gli ostaggi rapiti e sgozzati, ci spaventa che si possa morire al Bataclan, uccisi da colpi di arma da fuoco quando si è a un concerto, siamo emotivamente spaventati, ma se pensiamo razionalmente p chiaro a tutti che la percentuale di morti sulla popolazione, che è poi l’unico tasso di pericolosità tangibile e calcolabile, è basso. Soprattutto se confrontato ad altri luoghi del mondo, o anche ad altri tempi qui da noi. Mi rendo conto che sia un discorso che può apparire freddo e chirurgico, ma è la verità e se queste cose ci impediscono, come al mio amico, di fare un viaggio a Londra, vuol dire che dobbiamo ripetercelo. Perché non scherziamo, andare a Londra a Pasqua non può essere un atto che richiede coraggio, è normale.
Che cos’è un atto di coraggio?
Su questo punto credo che ci sia un equivoco. A un certo punto nel libro cito una frase di Luigi Manconi, che peraltro sottoscrivo completamente. Dice che se uno fa il giornalista che si occupa di Mafia nel sud Italia, non è un giornalista coraggioso, è semplicemente un giornalista che fa il suo lavoro. Certo, un lavoro pericoloso, che richiede tempra. Ma se non fa quello, che cosa deve fare? Accostare l’aggettivo coraggioso all’esercizio quotidiano del proprio dovere è una stortura.
Che ruolo abbiamo noi giornalisti in questa “macchina del panico”?
Purtroppo abbiamo un ruolo decisivo, perché da molto tempo ormai il giornalismo si presta a stimolare gli istinti più bassi dei lettori, per questo racconta più facilmente il male e la paura, piuttosto che i rimedi e il coraggio, perché è quello che, si dice, funziona di più. E lo sappiamo entrambi quanto a volte possano essere bassi, se non completamente assenti, i controlli su questo tipo di informazioni, o l’atteggiamento critico. Siamo tutti più propensi a obliterare la realtà che a metterla in discussione.
Per esempio?
Tutto ciò che riguarda la sicurezza è un teatrino. Quel che assistiamo tutti ogni volta che andiamo in aeroporto non è molto di più di una rappresentazione ad uso di noi che viaggiamo. Serve per rassicurarci, per farci credere che, siccome stanno controllando, il nostro viaggio sarà più sicuro. Ma non è effettivamente così.
E cosa c’entrano i giornalisti?
Noi giornalisti non ci siamo mai adoperati per smontare questo tipo di storia.Al contrario, lo sai meglio di me quanto siamo noi stessi ad alimentare questa macchina del terrore. Lo potremmo chiamare l’effetto a catena: dopo un caso di malasanità i giornali parlano di altri casi di malasanità per un mese, salvo che poi ce ne si dimentica completamente, passando all’allarme successivo.
Come la combattiamo?
Si smonta con la logica e la lucidità. In realtà tutto succede sempre, soltanto che noi ce ne accorgiamo a macchia di leopardo. Questo genera una serie di veri e propri terrori intermittenti concentrati sul fenomeno del momento, quando invece, se uno si ferma un attimo, si solleva e guarda le cose dall’alto, si accorge subito che la verità non è quella che ci stiamo raccontando.
Perché non lo facciamo?
Perché purtroppo fare i verificatori in Italia non ha mai pagato e il fact checking nei giornali o in televisione praticamente non esiste. Pensa a tutti i talk show, ormai sono spettacoli di teatro in cui da una parte e dall’altra si sparano numeri a caso, si parla di fatti mai accaduti. E non c’è nessuno a dire che non è vero.
Tornando alla macchino del panico, chi ha interessa a far sì che non cessi?
La paura è una forma di controllo estrema e che serve sempre, pensa solo ai tempi della strategia della tensione. Cosa serve? Serve a controllare le persone. E lasciare passare questo tipo di narrazione della realtà e aderirvi è una responsabilità molto grave della nostra categoria.
Come dobbiamo agire per cambiare le cose?
Io con questo libro ho provato a cominciare raccontando la cosa in positivo, mettendo insieme storie di persone che raramente finiscono sotto i riflettori, ma che se lo meriterebbero ampiamente. Perché è importante raccontare la corruzione e la stortura, ma è altrettanto, se non più importante raccontare chi è stato capace di opporsi. Ti parlo da una redazione sportiva e mi viene in mente la storia di quel calciatore che si chiama Farina. Uno che rifiutò una mazzetta per comprare una partita e per questo fu chiamato in nazionale da Prandelli. Soltanto che, quando si sono spenti i riflettori, lui in realtà ha smesso di giocare. Perché nessuno lo voleva. Gli outsider, quelli che hanno il coraggio di denunciare le storture del proprio mondo andrebbero tutelati e raccontati di più, perché la loro vita è difficile, è gente che non fa carriera, che non riceve promozioni, che spesso rimane sola.
Un’ultima domanda: l’Italia è un paese dominato da cricche, da favori tra amici, da ipocrisia e storture che poco hanno a che vedere con il coraggio. Cosa pensi succederebbe se, di colpo, da un giorno all’altro, fosse infuso in tutti gli italiani il senso del coraggio?
Sarebbe un giorno meraviglioso. Non so cosa potrebbe accadere il giorno dopo però, probabilmente ci sarebbero un sacco di macerie e ben pochi rimarrebbero in piedi. Però è anche vero che spesso i momenti migliori delle società sono quando ricostruiscono sulle macerie. Forse ne abbiamo bisogno.
Dici, perché?
Perché è pericoloso questo andazzo. È pericoloso questo continuo accumularsi di situazioni inaccettabili, di cricche, di reti di favori e connivenze, di zone grigie, e non solo nel giornalismo. Si prendono sempre come esempi la politica e il giornalismo, ma la società italiana vive di queste cose un po’ in tutti i settori, tanto che si è quasi convinta che non si possa vivere diversamente. Purtroppo anche i più giovani ho paura che stiano crescendo così, pensando che questo sia il solo sistema possibile. E che quindi ci sono due modi per uscirne: o andare a un talent, o trovare una scorciatoia.
E cosa diresti a questi ragazzi? Qual è la soluzione?
Non è né l’una né l’altra. La soluzione è sempre il lavoro, l’onestà, il coraggio. Io, per farti un esempio, se c’è una cosa di cui vado fiero, è l’essere entrato nel giornalismo tardi, attraverso un concorso promosso da La Stampa. È una cosa che mi è stata molto d’aiuto successivamente, perché non ho dovuto rendere conto a nessuno, non devo favori a nessuno e, ancor di più, sono ben conscio del fatto che si può fare, che può succedere, che si può vivere diversamente e uscire da quelle logiche storte.