Redneck, cioè Colli Rossi, «quel genere di persone che conserva la pagella della prima elementare perché va fiero della sufficienza in condotta». Tribalisti. «Rozzi bianchi del Sud con 12 denti in tutto». Lo scrittore Joe R. Landsdale ha raccontato bene su “Repubblica” lo stereotipo dell’elettore medio di Donald Trump, almeno come se lo raffigura chi ha una cultura, una formazione politica, uno status.
E stupisce il riferimento ai denti, perché è lo stesso al qale si impiccò dall’altro capo dell’oceano il socialista Francois Hollande, che secondo la ex moglie soleva riferirsi ai poveri chiamandoli «gli sdentati». E’ la sindrome di Maria Antonietta – «Non hanno più pane? Che mangino brioche» – e la vediamo rispuntare dove meno ce lo aspettavamo: nello stesso mondo, la stessa area culturale, la stessa latitudine estetica che nel Quarto Stato vedeva un riferimento etico imprescindibile, e attaccava copie di quel grande quadro nello studio di casa, e ci aggiungeva a fianco Ghandi e Lennon e Dylan, bandiere del “the time are changing” visto dalla parte degli ultimi.
Ora Dylan ha preso il Nobel, e sono le icone della cultura progressista a dire: ma come? Ora la classe operaia marcia per conto suo e sono i suoi vecchi sponsor a obiettare: ma che vi siete messi in testa? L’impresentabile biografia di Trump e le cose orribili che ha detto «sulle donne, sulle persone in sovrappeso, sui disabili, su gay, lesbiche, bisessuali, sui prigionieri di guerra, sugli ispanici, sugli afro-americani e sui genitori musulmani di un soldato decorato deceduto mentre difendeva il suo Paese» (è sempre Landsdale che parla), non smontano il suo successo e però la domanda logica – «che sta succedendo nel mondo?» – non viene fuori, e chi avrebbe gli strumenti per farla continua a dire: «ma non vi vergognate a sostenerlo?».
Ai senzadenti non interessa che Donald Trump dica cose che non piacciono ai media o ai ceti garantiti d’America sulle ragazze o sui messicani. Se avessero studiato economia, spiegherebbero la loro rivolta con il “grafico dell’elefante” di Branko Milanovic, il quale mostra come in un ventennio la globalizzazione abbia arricchito i super-ricchi occidentali e la nascente borghesia dei Paesi emergenti (Cina e India) sospingendo verso la povertà tutti gli altri, e in particolare la fascia media dei cittadini Ocse
Quei Redneck, quei buzzurri poco alfabetizzati, sono gli eredi dei contadini di Furore, i poveri bianchi e protestanti espropriati dalle banche delle loro fattorie, che dal Midwest migravano verso la California dopo la crisi del ’29, inseguendo lavoretti a giornata in un crescendo di disperazione e rabbia, e però non sono altrettanto simpatici. Perché gli antichi antieroi di John Steinbeck evocavano un ideale socialista ancora nuovo di zecca, non sciupato. Questi, questi che scelgono Trump, hanno preso atto della resa del socialismo e vanno altrove: verso una nebbiosa proposta di rivincita sociale ed economica, e il fatto che a questa terra promessa si accompagnino sentimenti impresentabili come sessismo e xenofobia, senza danneggiarla, dice una cosa sola: che quel sentimento è fortissimo e che è impossibile demolirlo con l’obiettiva rappresentazione delle cose, esattamente come non si uccise il comunismo raccontando dei gulag o del fallimento dei piani quinquennali.
Ai senzadenti non interessa che Donald Trump dica cose che non piacciono ai media o ai ceti garantiti d’America sulle ragazze o sui messicani. Se avessero studiato economia, spiegherebbero la loro rivolta con il “grafico dell’elefante” di Branko Milanovic, il quale mostra come in un ventennio la globalizzazione abbia arricchito i super-ricchi occidentali e la nascente borghesia dei Paesi emergenti (Cina e India) sospingendo verso la povertà tutti gli altri, e in particolare la fascia media dei cittadini Ocse.
Ma i senzadenti non hanno bisogno di statistiche per sapere che oggi il loro lavoro vale meno di quello dei loro padri, e se ne fregano delle avventure sessuali del leader che promette loro la rivincita. Così come al Quarto Stato francese non interessa di chi sia figlia Marine Le Pen, e che cosa dica o abbia detto suo padre su omosessuali ed ebrei. O agli elettori della Brexit non importa approfondire le conseguenze pratiche del loro “Sì” in termini di Pil, bilancia commerciale, spread e quant’altro. La rabbia, il furore, non sono sentimenti razionali.
Giunta al count-down finale delle presidenziali, Hillary Clinton è stata obbligata a scegliere la linea del disprezzo verso Trump e dei suoi elettori per delimitarne l’impatto e chiuderli in un recinto di impresentabilità dove nessuno sia tentato di raggiungerli all’ultimo momento. Sotto il profilo politico era l’unica mossa possibile, e sta funzionando: Mrs Clinton è in testa nei sondaggi.
Ma lo stigma vagamente razzista esteso a una massa così grande di persone – il 40 per cento dell’elettorato, forse anche di più – da parte non solo del partito avversario ma dell’intero sistema culturale e mediatico americano, rischia di avere conseguenze davvero pessime. Una democrazia che deve usare la criminalizzazione di milioni di elettori per farcela, corre gravi rischi. Quale sarà il prossimo passo? Dire che i Colli Rossi, quelli con la pagella delle elementari nel cassetto, i senzadenti, non meritano il privilegio del voto? Che gli equilibri del mondo e la democrazia non sono compatibili? Che la globalizzazione, dopo essere passata su un secolo di garanzie sociali, ha bisogno di mangiarsi anche quelle politiche? Il giorno dopo il voto americano, comunque vada, saranno questi gli interrogativi da porsi.