Un Trump più preparato e addomesticato non è bastato questa notte a sconfiggere Hillary Clinton in quel di Las Vegas, Nevada. Nel terzo ed ultimo dibattito presidenziale di questa corsa alla Casa Bianca il candidato repubblicano è stato infatti incapace di trovare la svolta necessaria per la sopravvivenza della sua campagna. A meno di venti giorni dal voto i sondaggi lo vedono staccato di diversi punti a livello nazionale ed in molti stati decisivi. Il mago delle previsioni, Nate Silver, fondatore del sito FiveThirtyEight, dà oltre l’87% di possibilità di vittoria all’ex Segretario di Stato. Il dibattito di questa notte non ha certo aiutato il magnate a rimontare: si parlerà per giorni del suo rifiuto a promettere che riconoscerà la vittoria di Hillary Clinton, «deciderò sul momento» ha detto. Rischia di essere, come ha twittato il filosofo David Weinberger, l’affermazione «meno patriottica e più pericolosa» di sempre da parte di un candidato alla presidenza. E secondo i focus group dell’analista Frank Lutz, la difesa del sistema elettorale ha rappresentato un grosso punto a favore della Clinton che secondo i primi sondaggi post dibattito ha vinto il confronto (secondo CNN 52% a 39%), incoronata dalla stampa internazionale ed italiana.
Durate i novanta minuti di dibattito si è parlato dell’esperienza in politica e Clinton si è detta «felice di paragonare i miei 30 anni di esperienza» a quelli di Trump, aggiungendo che mentre lei lavorava per migliorare le scuole dell’Arkansas, il suo stato, il magnate si faceva prestare i soldi dal padre e che mentre lei partecipava all’eliminazione di Osama Bin Laden, The Donald era «in televisione a giocare». Ma proprio sui tempi da Segretario di Stato ha puntato forte Trump per colpire la rivale, e non solo sul palco. Presente tra gli ospiti del candidato repubblicano c’era infatti, oltre a Malik Obama, fratellastro del presidente, anche Patricia Smith, madre del Sean Smith, una delle quattro vittime dell’attentato al consolato americano di Benghazi del 2012 ad opera delle milizie salafite di Ansar al-Sharia. Quattro morti per le quali la Clinton, all’epoca Segretario di Stato, si assunse la piena responsabilità per la scarsa sicurezza garantita a quell’ufficio di rappresentanza in Libia. Il disastro mediorientale, ha sottolineato più volte Trump, è figlio delle politiche di Clinton e di Obama: il vuoto lasciato ha permesso al terrorismo di nascere, prosperare, uccidere, avanzare.
Ma la domanda di Chris Wallace, moderatore di Fox News, sulla questione siriana ha riacceso il dibattito sui rapporti tra Trump ed il presidente russo Vladimir Putin. Trump ha ribadito la sua posizione verso Mosca: anni di Obama hanno causato morti e instabilità nel Medio Oriente. The Donald sta con Putin sulla Siria, una posizione in linea con la decisione del disimpegno sul fronte internazionale per concentrarsi sulle difficoltà interne al paese rimarcata anche quando ha attaccato gli alleati NATO accusandoli di non spendere abbastanza per la difesa lasciando buona parte degli esborsi a Washington. Ma parlare di Putin senza parlare di WikiLeaks, il sito che pubblica periodicamente e-mail rubate allo staff della candidata democratica, è impossibile. Clinton ha chiesto a Trump di ammettere il ruolo del Cremlino come fonte delle rivelazioni; replica secca: «lei non sopporta Putin perché lui è più intelligente di lei».
Pensare che il giorno dopo le elezioni il capitolo Trump, in caso di sua sconfitta, possa ritenersi chiuso è un errore che non possono commettere né l’ex Segretario di Stato, né il Partito repubblicano. C’è una fetta di elettorato arrabbiato con il governo, con le élite e con una politica che l’ha abbandonato in balìa di una globalizzazione a cui sono incapaci di far fronte da soli
Ci sono due tasti davvero dolenti per Clinton: la globalizzazione e la sua fondazione di famiglia. Sul primo tema, Trump, così come lo sfidante democratico alle primarie Bernie Sanders, ha accusato l’ex First Lady di essere una sostenitrice degli accordi internazionali che hanno indebolito gli Stati Uniti ed impoverito le classi medie e basse del paese come il NAFTA, il trattato con Canada e Messicano firmato dal marito Bill. Hillary è sempre stata liberista su questi temi e la svolta protezionista è arrivata solo quest’anno alla ricerca di conquistare il consenso dei sanderisti. La globalizzazione è da sempre uno dei punti forti del repubblicano che ha vita facile a raccogliere i favori degli “sconfitti della globalizzazione” – gli stessi che hanno votato per la Brexit, gli stessi che tifano per i movimenti nazionalistici nell’Europa continentale –, in particolare del ceto medio bianco.
Ma il vero nervo scoperto per Hillary e la Clinton Foundation, da mesi al centro di interrogativi circa i suoi fini: aiutare gli ultimi come sostiene lei oppure raccogliere grandi donazioni come afferma da tempo Trump? «Qatar e sauditi uccidono gay, discriminano le donne e finanziano la Clinton Foundation», ha attaccato il repubblicano costringendo la Clinton a cambiare discorso, tirando fuori la questione della dichiarazione dei redditi di Trump non ancora pubblicata per uscire dall’angolo: è sembra essere davvero il suo tallone d’Achille dopo anni di difesa dei diritti LGBT ma anche e soprattutto dopo le rivelazioni circa il peso di certe potenze nella nascita e nel prosperare dello Stato Islamico.
Hillary Clinton quasi certamente vincerà e molto probabilmente lo farà di larga misura. Ma, come sottolinea l’editorialista de La Stampa Gianni Riotta, «votassero solo i maschi perderebbe»: «la detestano» ed il primo obiettivo del suo governo sarà pacificare la situazione. Continua Riotta, «Trump è stata una grande distrazione, colorata, petulante e vana: serve rimediare ai problemi che indica, e non sono un golpe a Washington». Durante l’ultimo dibattito Hillary Clinton ha giocato in difesa, forte della sua posizione di vantaggio nei sondaggi e della scarsa affidabilità presidenziale dell’avversario. Ma pensare che il giorno dopo le elezioni il capitolo Trump, in caso di sua sconfitta, possa ritenersi chiuso è un errore che non possono commettere né l’ex Segretario di Stato, né il Partito repubblicano. C’è un popolo, una fetta di elettorato arrabbiato con il governo, con le élite e con una politica che l’ha abbandonato in balìa di una globalizzazione a cui sono incapaci di far fronte da soli.