Buona regola è cercare di distinguere i fatti dalle opinioni. Vediamo allora di separare le opinioni da ciò che è o appare un fatto, nei numeri anticipati della nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza in vista della prossima legga finanziaria.
I fatti sono questi. Primo: per l’ennesima volta – capita da decenni – le previsioni governative di crescita del PIL e di miglioramento della finanza pubblica erano sopravvalutate. Secondo: ancora una volta, le nuove previsioni governative su PIL e finanza pubblica sono più ottimistiche del consenso medio degli osservatori domestici e internazionali. Terzo: questo ottimismo comporta effetti che evidentemente al governo non dispiacciono. Quarto: ma danno ragione alla Ue che ne diffida. Quinto: dunque saranno la base di nuove richieste italiane a Bruxelles. Sesto: intanto c’è una grande novità, il governo smette di ripetere il mantra “nessun accordo preferenziale coi sindacati e basta concertazione”, e chiude invece proprio col sindacato l’accordo complessivo sulla previdenza che verrà varato in finanziaria.
Dopo la stasi congiunturale del PIL nel secondo trimestre 2016 e molti indicatori – consumi, manifattura – che continuano a deludere, assumere un +0,8% di crescita nel 2016 e +1% nel 2017 ha due effetti. Significa contenere sulla carta la previsione del deficit di quest’anno entro il 2,4-2,5% del PI: ma lo stesso DEF della primavera scorsa ammetteva che a questi minori tassi di crescita si rischia di chiudere l’anno invece sul 2,7-2,9%. Poiché il governo lo sa (l’ha scritto lui stesso ad aprile) scegliere un persistente ottimismo aumenta gli effetti da minor crescita, cioè aggiunge munizioni alla richiesta in Europa di concederci un deficit 2017 che non solo si alza dall’1,8% contrattato al 2% del nuovo DEF, e nemmeno solo al 2,4% se la Commissione autorizza spese fuori dal patto per migranti, sicurezza e terremoto. Ma probabilmente ancora più alto, se la crescita e le entrate saranno più deboli di quanto prevede oggi il governo ancora ottimista.
La diffidenza europea non si basa sulla nostra crescita inferiore al previsto. Ma sulla caduta del pilastro su cui si è poggiato l’anno scorso il riconoscimento alla richiesta italiana di spostare in avanti al 2018 il pareggio strutturale del bilancio italiano. Il pilastro era rappresentato dall’assunto che da questo 2016 il debito pubblico scendesse. Invece continua a salire. E con ogni probabilità, anche se il governo dice il contrario, avverrà con queste premesse anche nel 2017: perché a crescita così asfittica e deficit superiore al 2% ci manca la crescita nominale – leggi inflazione – perché il debito possa scendere rispetto al denominatore. Ergo, questa nota di aggiornamento al DEF sembra proprio la base di ulteriori slittamenti in avanti, oltre il 2020, del pareggio strutturale di bilancio al netto del ciclo.
Traduciamolo in politica: la flessibilità l’Europa ce l’ha concessa eccome, noi abbiamo mancato clamorosamente l’impegno assunto che la giustificava, e ora ci ricandidiamo alla stessa cosa ma chiediamo altra flessibilità aggiuntiva. Abbiamo cercato mille vie tecniche per farlo. Abbiamo provato a contestare frontalmente il modo in cui la Ue calcola l’output gap , e siamo stati respinti. Abbiamo provato a forzare le norme del Patto di Stabilità chiedendo che la flessibilità concessa per la clausola degli investimenti e delle riforme valesse non per un anno ma per tutti gli anni a seguire. E naturalmente ci hanno liquidato rileggendoci le regole ad alta voce. Cose tecniche, per carità. Ma non belle figure di certo.
Veniamo alle opinioni. Non è un mistero che nel fissare il deficit al 2% per il 2017 più uno 0,4% se Bruxelles ce lo concederà, ha vinto la prudenza di Padoan su Renzi che voleva schiacciare di più il piede. Il motivo è evidente: è il referendum del 4 dicembre. Su cui Renzi si gioca tutto. Nasce anche di qui l’improvvisa aspra polemica messa in campo nelle ultime due settimane dal premier italiano contro Merkel e Hollande.
Infatti, neanche il 3% di deficit basterebbe, per soddisfare tutte le promesse che da 6 mesi a questa parte il governo ha fatto scrivere ai giornali come in arrivo nella prossima finanziaria. Di fatto, al momento sembra che il premier si riservi di mantenere questo schema più prudente nella finanziaria che sarà pronta il 20 ottobre. Per poi riservarsi, a seconda dei sondaggi sul referendum, magari emendamenti “espansivi” a pochi giorni dall’appuntamento decisivo con le urne, per convincere in extremis chi avesse dubbi. C’è chi ha scritto che potrebbe anche anticipare al 2017 l’abbassamento di uno o due punti dell’aliquota IRPEF al 38% che scatta oltre i 28mila euro di reddito lordo. Vedremo.
Di certo non è dai tagli alla spesa pubblica, che possiamo aspettarci rilevanti spazi aggiuntivi per finanziare non in deficit tutte le promesse. Che ovviamente si sommano al punto di PIL che deve andare a copertura del mancato scatto di aumenti di IVA e accise (deciso da questo governo, non dai predecessori come spesso erroneamente ripetuto). Al massimo ci sarà la riapertura dell’emersione volontaria di capitali detenuti all’estero e ignoti al fisco, che tuttavia produce entrate una tantum non contabilizzabili a copertura di maggiori uscite permanenti. E inoltre, per recuperare davvero cifre considerevoli, bisognerebbe indurre alla convenienza chi non ha usato la prima voluntary: cioè rendere meno elevato il rischio di sanzioni penali, non proprio una scelta equa e popolare.