Ci sono buone ragioni per smetterla di dare retta al cosiddetto Nobel per l’Economia. Prima di tutto, come ormai molti sapranno, il premio Nobel per l’Economia non è un vero premio Nobel, ma un tarocco creato dalla banca centrale svedese. Poi – ed è anche più importante – il premio ha un’influenza sulla ricerca economica e, di conseguenza, sulla politica economica e la spinge verso una particolare visione del mondo: quella neoliberista. Non lo dice LinkPop, lo dicono due studiosi – storici dell’economia – Avner Offer (Università di Oxford) e Gabriel Söderberg (Università di Uppsala), in un libro intitolato The Nobel Factor e raccontato sul Nouvel Observateur.
La loro tesi è semplice: da quando è stato istituito, il premio tende a legittimare la crescita delle idee neoliberisti degli anni ’70 e ’80, sostituendo il modello social-democratico con quello del mercato libero, dando spazio al Washington Consensus, regalando sorrisi a Margaret Thatcher e Ronald Reagan e soprattutto alla scuola di Chicago.
Ma come, diranno gli ingenui, proprio gli svedesi? Eppure il loro modello economico è tutt’altro che liberista, aggiungeranno. Proprio così, risponderanno i due studiosi, ma non bisogna confondere la direzione del governo e quella della banca centrale. E racconteranno la storia di un braccio di ferro cominciato negli anni ’60, quando il governatore della Banca di Svezia, Per Åsbrink, con l’appoggio dei ceti finanziari del Paese, cercò di contrastare le politiche economiche del governo, di stampo social-democratico. In soldoni, lui voleva ridurre l’inflazione, loro fare uso del credito per dopare l’occupazione.
Ecco: il premio nasce all’interno di questa lotta. L’obiettivo era di aumentare il prestigio della banca e, al tempo stesso, propagare le idee “giuste”. Lo dimostra la composizione della giuria, fatta di economisti in larga parte di centrodestra e guidata per 25 anni da Assar Linbeck, economista di profonde convinzioni liberiste (suo è un lavoro che dimostra come il mercato del lavoro fosse danneggiato dalle politiche di aiuto sociale). Per cui le parole d’ordine erano sempre le stesse: priatizzazioni, austerità, libertà dei movimenti di capitale, libero scambio, indipendenza delle banche centrali.
Lo dimostra, secondo i due autori, anche la lista dei vincitori: il 37% dei riconoscimenti è finito a rappresentanti della scuola di Chicago. Ci sono casi di eccezioni notevoli e doverose, come Joseph Stiglitz nel 2001 e Paul Krugman nel 2008. Eppure il dato è inconfutabile: su 76 premiati 28 sono della scuola di Chicago, l’80% è americano, solo il 7% non è occidentale. Numero di donne premiate? Una: Elinor Ostrom, nel 2009. Non hanno vinto il Nobel invece grandi personalità come Joan Robinson, studiosa inglese contraria alle idee neoclassiche. O John Kenneth Galbraith, anche lui molto critico.
Il premio Nobel, insomma, non sarebbe altro che un modo per propagandare idee e convinzioni specifiche, contribuendo a pensare che l’economia, e il pensiero intorno, possa essere vista solo da una finestra: quella di Chicago.