Sono tornati i paradisi fiscali? Davvero potremo tornare a commerciare con le società offshore? No, ci spiace. Non succederà, nonsotante il mega scoop quello del Fatto Quotidiano di domenica 9 ottobre. Se non fosse che qualcosa – anzi, più di qualcosa – non torna. Ad esempio, è mai possibile che nell’era della voluntary disclosure, dello scambio automatico di informazioni, dell’abuso del diritto, sia possibile “tornare a commerciare liberamente con le società offshore”? Certo, il tema è particolarmente complesso, ma affrontarlo in questo modo non serve a nulla. Nemmeno a indebolire il governo se è quello l’intento.
La Legge di Stabilità 2016 ha modificato l’art. 167, comma 4 del Testo Unico delle Imposte sui redditi, abrogando, in primo luogo, la previsione con cui si affermava la necessità di una blacklist contenente l’individuazione degli Stati e territori a fiscalità privilegiata da emanare con apposito decreto ministeriale. E, quindi, la disposizione che conferiva all’Agenzia delle entrate il compito di individuare con un elenco non tassativo i regimi fiscali speciali da considerarsi in ogni caso privilegiati.
In sostituzione delle abrogate disposizioni, è stato però previsto un criterio univoco e fissato ex lege di identificazione dei Paesi a fiscalità privilegiata e dei regimi fiscali speciali, consistente nel livello nominale di tassazione inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia. In sostanza, la legge di stabilità 2016 ha abbandonato ogni riferimento alle blacklist ma ha ridefinito in via esclusivamente normativa i criteri per l’individuazione degli stati e territori a fiscalità privilegiata.
In altre parole, i paradisi fiscali non sono stati cancellati, bensì identificati in un nuovo modo. Peraltro, a livello europeo, la Commissione UE ha dato proprio in questi giorni inizio ai lavori per stilare un elenco contenente i Paesi terzi non collaborativi che applicano regole poco trasparenti, regimi speciali e no tax area per le imprese (trattasi di una vera e propria black list europea che dovrebbe vedere la luce nel 2017).
Con la stabilità 2016, la disciplina è stata completamente abrogata e tale abrogazione risponde in realtà a esigenze di semplificazione e soprattutto supera gli ostacoli, molto spesso insormontabili, che impedivano il riconoscimento di costi per beni e servizi effettivamente forniti
Per quanto concerne invece il regime speciale di deducibilità dei cosiddetti costi blacklist – quelli derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e imprese domiciliate in Stati o territori “proibiti” – è vero che dal periodo d’imposta 2016 gli stessi sono divenuti deducibili secondo le regole ordinarie. Tuttavia, sempre a condizione che siano soddisfatti i requisiti di effettività, inerenza, certezza, determinatezza (o determinabilità) e competenza e nel rispetto delle norme generali sulla deducibilità dei costi.
La disciplina della deduzione dei costi blacklist ha subito nel corso degli anni successive modifiche. Fino al 2014 era prevista l’indeducibilità di detti costi, a meno che in cui il contribuente residente fosse in grado di fornire la prova all’Amministrazione finanziaria in relazione all’effettivo svolgimento di un’attività commerciale da parte dell’impresa estera fornitrice e al fatto che le operazioni da cui derivavano i componenti negativi rispondessero ad un effettivo interesse economico per l’impresa residente e avessero avuto concreta attuazione.
Con il successivo decreto internazionalizzazione (D.Lgs. n. 147/2015) si è riconosciuta la deducibilità di tali costi ma nei limiti del valore normale ed è stato eliminato quale possibile esimente ai fini del riconoscimento dell’intero costo (anche oltre il valore normale) la dimostrazione dell’effettivo svolgimento di un’attività commerciale da parte dell’impresa estera fornitrice.
Con la stabilità 2016, la disciplina è stata completamente abrogata e tale abrogazione, descritta dal Fatto Quotidiano come male assoluto, risponde in realtà a esigenze di semplificazione e soprattutto supera gli ostacoli, molto spesso insormontabili, che impedivano il riconoscimento di costi legittimamente sostenuti per beni e servizi effettivamente forniti. Spesso, a tal fine, era infatti necessario ottenere documentazione difficilmente (o praticamente impossibile) reperibile dai fornitori esteri (come contratti di lavoro dei dipendenti, contratti per le utenze, contratti di locazione, etc.).
In pratica, come affermato su Twitter dal Prof. Stevanato, a commento dell’articolo del Fatto Quotidiano, l’indeducibilità aveva spesso il solo effetto di intralciare transazioni effettive. Di conseguenza, pure l’abrogazione va sicuramente salutata con favore. Del resto, ciò non impedisce all’Amministrazione Finanziaria – sia chiaro – di contestare comunque la deducibilità del costo qualora riesca a provare che l’operazione non sia effettiva.