La borghesia italiana? È annegata in un cocktail

La classe sociale più dinamica e trainante è morta ma non ancora sepolta. Il romanzo “Gin tonic a occhi chiusi” di Marco Ferrante ne mette a nudo i meccanismi di dissoluzione, in modo impietoso, e clinicamente ineccepibile

Cosa resta della borghesia italiana? Dal Dopoguerra in poi a quanto pare è stata tutta una demolizione della classe che ha inventato la modernità. Prima disprezzata dalla vulgata marxista, poi combattuta da quelli del ’68 e spernacchiata da quelli del ’77, e poi ancora sommersa dal riflusso degli anni ’80, fatta tappetino per boogie woogie postmoderni, e a tocchetti dal globalismo degli anni Zero.
Se si può discutere sul fatto che una vera e propria borghesia moderna in Italia ci sia davvero stata (a parte gli Agnelli, i Florio, e qualche altra famiglia la storia del nostro paese è stata costruita piuttosto da una piccola borghesia familiare, formicolante, invasata solo dall’ arte e mestiere d’arrangiarsi) è innegabile che uno strato intermedio di grandi professionisti, docenti universitari, imprenditori da qualche generazione, servitori dello Stato, ufficiali, anche politici con un certo senso delle istituzioni, sia esistito.

Cosa ne rimane, finite ideologie e post ideologie? Poco. Quasi niente. O niente del tutto. E chi se non un cronista poteva tenere il polso a questo malato terminale della società che non è nemmeno in grado di accorgersi della morte che viene (o venne) e formulare una verità basica una, e nemmeno più un qualsivoglia lamento sull’Untergang des Abendlandes?
Ed ecco che non ci sono elegie sociali nel romanzo di Marco Ferrante, Gin tonic a occhi chiusi (Giunti, pp 352 Euro 16). Ferrante è appunto un giornalista economico, pugliese, da un po’ di anni a Roma, che della borghesia sa essere narratore preciso.
La famiglia di scena nel romanzo è la famiglia borghese romana. Capostipite la matriarca Elsa Misiano, protagonisti i figli tutti intorno ai 40 anni. Paolo, onorevole alla prima legislatura tendente all’inettitudine. Gianni, fiscalista di successo che ha scelto il soldo e non se ne pente. Ranieri giornalista sfastidiato coi vezzi del presunto genio. Intorno mogli, figli, amanti. Un romanzo borghese, appunto. Come da tempo non se ne facevano più.

Borghesia e Roma. Solo che il Novecento è finito, la vita non è più tanto dolce, e non ci sono né sante né fenicotteri rosa a tenere viva la possibilità del Sogno. E quindi tutto converge, al massimo, in un’unica abilità: preparare un gin tonic a occhi chiusi

Borghese e romano. Vengono in mente precisi riferimenti cinematografici, il più scontato è La grande bellezza -e Fellini, certo-, il più centrato, forse, è La famiglia di Ettore Scola. E vengono in mente un’infinità di antecedenti letterari, da Moravia a qualcosa di Soldati, a De Feo, al primo Montefoschi.
Solo che il Secolo Breve è finito, la vita non è più tanto dolce, e non ci sono né sante né fenicotteri rosa a tenere viva la possibilità del Sogno. Nessuno tra i protagonisti ha un ritorno all’infanzia da desiderare, né un libro da scrivere, (né come in certo Nanni Moretti, una qualche giovinezza massimalista da corteggiare o rigettare). E quindi tutto converge, al massimo, in un’unica abilità: preparare un gin tonic a occhi chiusi. È quello che fa, uno dei protagonisti, Ranieri il giornalista, verso la fine del romanzo, e c’è di mezzo l’amore.
Ed è sempre quello, l’amore, che fa fare i salti a Paolo, il politico. Sposato, tre figli, si innamora di una femmina “in odor di meretricio” ma soprattutto malata di televisione. Si bordeggia lo scandalo, ma si sa siamo in Italia, il Paese dove la cosa che conta di più alla fin fine è una: durare. Basta tenere duro, esserci, stare lì, tutto si supera, tutto, cattolicamente e romanamente, si perdona.

L’amore, dicevamo. E anche il potere. Ma quello di Ferrante non è il classico romanzo sul potere. Niente di più lontano dagli scopi d’autore di un romanzo/denuncia, o anche solo di una cronaca di cinismo Measure for measure. Piuttosto Ferrante mette in fila i fatti per stilare una galleria di tipi psicologici in azione e di relazioni pericolose. Parte da micro-fatti simbolici, come si vede in questa citazione da pagina 69, in cui Ranieri va ad informarsi da una collega su una trasmissione giornalistica che intende intervistare il fratello, sulle spine per vicende giudiziarie che lo potrebbero sfiorare. Alla collega piace Ranieri, ma lui è interessato solo alla faccenda da sbrigare. «Parlano un po’ di attualità, pettegolezzi, giornali e politica. Ranieri è molto svogliato, ma lei non se ne accorge. “E a Senza rete, che state preparando?”. Lei dice tutto quello che sa. Lui non le dice che hanno chiesto un’intervista a suo fratello Giovanni». Ferrante arriva alle rappresentazioni familiari in grado di raccontare il conflitto di forze che sta in ogni relazione, tra singoli o tra gruppi. La matriarca Elsa che ogni anno “raccoglie con un pretesto tutto il personale di servizio di cui dispone” per una cena di famiglia.

Una dissoluzione della borghesia che come classe sociale non ispira nemmeno horror vacui, perché alla fine resta solo il vacui, senza horror. In questo libro il non-orrore di una morte sociale è raccontato con puntualità e perfino con impietoso divertimento, fino all’ironia sentimentale

L’intreccio, la narrazione, e lo stile guardano la dimensione del politico usando come arma da dissezione la psicologia. Ed ecco che Paolo, il politico, con la carriera mezza rovinata e la famiglia a rotoli, si mette a fantasticare compulsivamente, in appartamento triste solitario e semifinale, su una barca da comprare: numero dei metri e nome: “Sparviero”.
Il libro di Ferrante è la cronaca di una decomposizione sociale che è motivata e ricade tutta nella psicologia. Una dissoluzione della borghesia che come classe sociale non ispira nemmeno horror vacui, perché alla fine resta solo il vacui, senza horror. In questo libro il non-orrore di una morte sociale è raccontato con puntualità e perfino con impietoso divertimento, fino all’ironia sentimentale.
​Alla borghesia non serve un referto medico, figuriamoci, né un confessore che raccolga una qualche ultima parola. È sufficiente preparare un gin tonic. A occhi chiusi.

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