L’Isis è a pezzi, ma non gli daremo il colpo di grazia

Nonostante la presa di Dabiq e l'offensiva su Mosul, capitale irachena dell’Isis, l’offensiva è destinata a fermarsi presto e a rimanere bloccata. Pesano gli interessi contrapposti di Usa, Russia, Siria, Turchia e curdi

Negli ultimi giorni il sedicente Stato Islamico è stato brutalizzato dai suoi avversari. In Siria i ribelli filo-turchi, appoggiati direttamente da Ankara, il 16 ottobre hanno strappato al controllo del Califfato Dabiq, città piccola ma dall’enorme valore simbolico: qui, secondo una tradizione islamica sunnita spesso invocata dall’Isis, sarebbe dovuto accadere lo scontro finale tra le forze del bene (i fedeli musulmani) e quelle del male (i crociati), e “Dabiq” era anche stato scelto come nome per la rivista di propaganda dello Stato Islamico.

In Iraq il 17 ottobre sono cominciate, subito dopo l’annuncio del premier al Abadi in diretta Tv, le operazioni militari per liberare Mosul, seconda città del Paese, culla e capitale del Califfato. Qui due anni e mezzo fa al Baghdadi aveva proclamato la nascita dello Stato Islamico. Ora l’esercito iracheno, le milizie sciite e i peshmerga curdi – supportati dall’aviazione e dalle forze speciali della coalizione anti-Isis a guida Usa (oltre agli americani sono presenti sul terreno australiani, tedeschi, francesi e canadesi) – stanno avanzando su sei direttrici verso la città (v. cartina 1).

La battaglia potrebbe durare anche per diversi giorni, o settimane. Gli uomini del Califfo hanno avuto mesi per fortificare e mimetizzare le proprie postazioni, per disseminare di ordigni e trappole la città. Ma il suo esito, anche considerata la sproporzione di forze tra i 5-10 mila jihadisti (a seconda delle stime) e i 30 mila soldati iracheni appoggiati da aviazione e artiglieria pesante, pare scontato. I problemi maggiori si teme possano arrivare dopo la liberazione.
In primo luogo preoccupa il possibile esodo di – secondo le stime – oltre un milione di profughi e la sua gestione. Poi c’è il timore di violenze settarie delle milizie sciite filo-iraniane contro la popolazione sunnita. All’interno di questa la minoranza turcomanna preme perché la Turchia, che nel Kurdistan Iracheno ha alcune migliaia di uomini (coi peshmerga, a differenza che coi curdi siriani o turchi, Ankara ha storicamente buoni rapporti), partecipi alle operazioni. Baghdad però, che teme le mire espansionistiche di Erdogan nella regione e che gioca di sponda con l’Iran sciita, ha posto il veto. In generale la gestione di quello che verrà dopo la liberazione in una città in cui storicamente convivono etnie (armeni, curdi, arabi, turcomanni, persiani etc.) e fedi diverse (sunniti, cristiani, sciiti, yazidi, ebrei etc.) è fonte di grave preoccupazione.

Lo Stato Islamico in Iraq pare comunque destinato a scomparire come entità statale, anche se probabilmente resterà attivo come organizzazione terroristica (con quanto seguito dipenderà appunto molto dalla gestione del dopo-liberazione di Mosul e dintorni).

Per dargli il colpo di grazia serve conquistare l’altra sua capitale, quella siriana di Raqqa. Ma vista la situazione in Siria al momento questa è una prospettiva lontana e incerta. La conquista di Dabiq rappresenta probabilmente l’ultima mossa contro l’Isis che si poteva fare senza aver trovato un accordo tra i vari attori, regionali e internazionali, coinvolti nella partita siriana. Ora siamo in una situazione di stallo.

I ribelli siriani filo-turchi responsabili della liberazione di Dabiq, secondo diversi analisti, non possono avanzare oltre – in particolare verso la cittadina di Al Bab, controllata dall’Isis (vedi cartina 2) – perché l’accordo tra Erdogan e Putin (che ha garantito ai turchi e ai ribelli di poter operare in territorio siriano senza timore di bombardamenti russi o di Damasco) avrebbe esaurito la sua portata. Putin infatti non vuole che i ribelli filo-turchi si avvicinino troppo ad Aleppo, dove in questo momento Mosca e il regime di Assad stanno cercando di piegare la resistenza dei quartieri orientali in mano ai ribelli per prendere il controllo dell’intera città. E senza un via libero da parte della Russia non sono ipotizzabili operazioni turche in Siria.

I curdi siriani, che sarebbero nella posizione ottimale per attaccare Raqqa (vedi cartina 3), non hanno interesse a liberare la capitale siriana del Califfato, città estranea ai territori tradizionalmente loro. Per farlo vorrebbero qualcosa in cambio, in particolare unificare i propri cantoni orientali con quello occidentale di Afrin passando per Al Bab, creando così un Rojava (Kurdistan siriano) unito. Gli Stati Uniti però non possono promettere ai curdi un accordo del genere per spronarli ad attaccare Raqqa, perché la Turchia ha messo il veto su una possibile unificazione del Kurdistan siriano, e se finora le operazioni turche in territorio siriano non hanno ancora colpito duramente i curdi è solo per via della mediazione statunitense.

La terza forza teoricamente ostile all’Isis, oltre ai ribelli e ai curdi, è il regime di Assad. Pur essendo in posizione ottimale per attaccare Al Bab, al momento pare troppo impegnato nella battaglia di Aleppo. Se i ribelli filo-turchi tentassero un’avanzata potrebbe allora occupare preventivamente la città, oppure cercare un accordo coi curdi – cosa già fatta in passato e ancora adesso in varie aree della Siria – perché la conquistino loro (ma qui si riaprirebbe il problema del triangolo turchi-curdi-Usa). Per quanto riguarda poi un eventuale attacco su Raqqa, logisticamente ancor più difficile (v. cartina 3), al momento non sembra ce ne sia né la volontà (l’esistenza stessa dell’Isis è utile alla propaganda di Assad) né la possibilità (il regime soffre di una carenza cronica di uomini). E se anche un domani il tentativo venisse fatto si dovrebbe valutare la reazione degli Usa di fronte a una possibile vittoria di immagine enorme per Putin e Assad.

La paralisi nella guerra all’Isis in Siria sembra dunque destinata a durare almeno fino alla fine della battaglia di Aleppo (vedi cartina 4) e, probabilmente, anche oltre. Il Califfato ha infatti storicamente prosperato sulle divisioni tra i suoi nemici e una “Yalta del Medio Oriente”, dove Russia e Stati Uniti, Arabia Saudita e Iran, Turchia e Qatar trovino un accordo sulla spartizione delle rispettive sfere strategiche di influenza, ancora non è all’orizzonte.

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