Se un giornalista viene pagato da un personaggio politico è difficile pensare (anche a torto) che questo giornalista possa mantenere intatta la sua credibilità. Ma cosa succede se è il giornalista, invece, a pagare il personaggio politico? È possibile che in questo caso, invece, la sua credibilità resti intatta?
Il caso non è teorico. Secondo i dati del Center for Public Integrity, la candidata democratica Hillary Clinton ha ricevuto, tra gennaio 2015 fino ad agosto 2016, 382mila dollari di donazione da parte di giornalisti. Il suo avversario repubblicano, Donald Trump, ne ha presi solo 14mila. Il dato è visibile:
Sono credibili, insomma, gli articoli e le trasmissioni di giornalisti che, a quanto è evidente, non solo provano simpatie per un candidato (che è più che lecito) ma hanno anche contribuito con i propri soldi? La questione è piuttosto delicata. George Stephanopoulos, ad esempio, caporedattore del politico alla rete Abc e anchorman di Good Morning America (ed ex membro per la stampa dell’amministrazione Clinton), dal 2012 in poi ha donato in totale 75mila dollari alla Fondazione Clinton – cosa che non ha rivelato né alla sua rete né, tantomeno agli spettatori. Una volta scoperto, ha subito le polemiche del fronte repubblicano e gli è stato impedito di moderare il dibattito presidenziale.
Sulla stessa falsariga, Emily Nussbaum, la critica televisiva del New Yorker e Premio Pulitzer, ha ricordato, alla Convention nazionale dei Repubblicani, che Trump e un “misogino corrotto” che conduce “una campagna brutta e xenofoba”. Tutto vero: ma la Nussbaum si è scordata di ricordare che, nello scorso aprile, ha donato 250 dollari alla Clinton. È tutto molto coerente, ma la domanda si affaccia lo stesso? Siamo sicuri che agisca in modo disinteressato? Siamo sicuri che non ci sia conflitto di interessi? Lei sostiene di no.
E ancora: Carole Simpson, ex conduttrice di World News Tonight dell’Abc che nel 1992 fu la prima donna afro-americana a moderare un dibattito presidenzale. Nel 2016 ha donato alla Clinton la bellezza di 2.800 dollari. Lei non vedeva l’ora che “arrivasse una donna per correre alle presidenziali”. Giusto. O no?
Ogni cittadino americano è libero di fare donazioni a partiti e a candidati alla presidenza. Ma per i giornalisti le cose vanno in modo diverso. In mezzo c’è una questione di credibilità, necessaria per un mestiere che vuole (vorrebbe) raccontare i fatti da una posizione neutra. E allora, dal momento che le donazioni sopra i 200 dollari sono pubbliche, è difficile difendere la percezione della propria indipendenza quando è manifesto che, in privato, ci si è sbilanciati in modo pesante. In buona sostanza, ne può andare della credibilità della firma e, di conseguenza, della testata che la ospita. Non per niente sono molti i giornali e le agenzie che hanno adottato policy specifiche sulla questione: il New York Times le vieta, l’Associated Press anche, la Cnn idem. Della stessa opinione sono LA Times, Npr, Propublica e tante altre.
Due i principalimotivi perché un giornalista, al costo della propria reputazione, dovrebbe donare un contributo a Hillary Clinton: avere un’intervista con lei e i suoi più stretti collaboratori e garantirsi future entrature alla Casa Bianca in caso di vittoria democratica. Perché, come ha rivelato il libro Clinton Cash, o paghi, o non tocchi palla (pay for play)
Anche molti singoli giornalisti preferiscono non schierarsi: Margaret Sullivan del Washington Post spiega che “non avere affiliazioni la aiuta a sentirsi più indipendente”. E lo stesso viene confermato da un public editor del New York Times. Lui (anonimo) non lo farebbe. “E nemmeno la redazione lo consentirebbe. La trovo una giusta disciplina”. Del resto, come ammette Paul Fletcher del Virginia Lawyers Weekly ed ex presidente della Society of Professional Journalists, la donazione “potrebbe essere percepita come un conflitto d’interesse”. Tanto è vero che Leonard Downie Jr, del Washington Post, addirittura sceglie di “non votare nemmeno” per evitare di avere ogni tipo di condizionamento sulle news politiche.
E allora perché ci sono tanti che le fanno? Sono sia editori, come Anna Wintour di Vogue, sia giornalisti di spicco, come Jane Sarkin di Vanity Fair, o Lynne Segall di Hollywood Reporter. Tutti questi hanno donato almeno 2.700 dollari a testa alla Clinton. Va bene il sostegno, ma c’è dell’altro.
Da un lato, la necessità: non è facile intervistare Hillary Clinton, o i suoi collaboratori più stretti. Serve avvicinarsi, e per farlo occorre andare alle cene elettorali che, negli Usa, sono carissime. I giornalisti che lo fanno, in generale, avvertono la redazione e decidono insieme ai caporedattori se l’investimento è necessario. Una volta fatta la scelta, si va. Si intrecciano i legami con le fonti (necessarie per il mestiere) senza per forza passare come sostenitori di una parte politica. È, in sostanza, l’obolo per accedere ai piani alti.
Dall’altro lato e in modo analogo, come dimostra bene il libro di Peter Schweizer, Clinton Cash, (e, in modo involontario, le affermazioni dello stesso Stephanopoulos) il mondo dei Clinton funziona con un meccanismo molto semplice: pay for play. O paghi, o non tocchi palla. O ti schieri, o non avrai nulla. E, visto che i sondaggi insieme al buonsenso indicano che sarà lei la prossima presidente degli Stati Uniti, la corsa alla lepre è già cominciata. Da un lato si paga, dall’altro si scrive: meglio se a favore di Hillary, ottimo se contro Trump. Il futuro presidente saprà ricompensare?