Nel marzo del 1978 quando nella capitale si perpetrò il più drammatico e sconvolgente omicidio politico della storia dell’Italia repubblicana, con il rapimento e l’assassinio del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e dei cinque uomini della sua scorta, Antonio Cornacchia comandava il Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Roma.
Cornacchia, pugliese, classe 1931, ha recentemente dato alle stampe per l’Editoriale Sometti di Mantova un libro sulla sua lunga carriera di servitore dello Stato, prima nell’arma dei Carabinieri e poi nei servizi segreti militari, dal titolo Airone 1 Retroscena di un’epoca, a cura di Angelo Giannelli Benvenuti.
Nei giorni scorsi, inoltre, il generale Cornacchia è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro; un’audizione che ha arricchito di alcuni particolari sia il racconto sia i giudizi espressi nel libro.
Nel suo libro Cornacchia, ad esempio, è tornato sui viaggi che Mario Moretti avrebbe fatto «in compagnia di Giovanna Currò (Barbara Balzarani?)» in Sicilia e in Calabria tra il novembre 1975 e il febbraio 1976, ricordando come il pregiudicato calabrese Aurelio Aquino, al momento del suo arresto, fosse stato trovato in possesso di «banconote appartenenti al riscatto, versato alle BR proprio di Moretti, per la liberazione dell’armatore Costa».
Una pista, quella dei rapporti tra BR e criminalità organizzata a cui gli investigatori dell’epoca non dettero mai troppa importanza, nonostante una voce indicasse tra i presenti in via Fani il mattino del 16 marzo 1978 un esponente della famiglia Nirta, il giovane Antonio “due nasi”, classe 1946. Una presenza tra la folla di curiosi che il lavoro della Commissione parlamentare d’Inchiesta consente oggi di poter confermare con ragionevole certezza, anche se è ancora in via di accertamento se e quale ruolo Nirta potrebbe aver avuto nella dinamica dell’agguato.
Sia nel libro sia nell’audizione in Commissione, Cornacchia ha confermato, inoltre, che nei giorni immediatamente successivi furono molteplici i tentativi di contatto per trovare la prigione di Moro in particolare con «i mafiosi Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Pippo Calò; Franco Giuseppucci, Danilo Abbruciati, Nicolino Selis della banda della Magliana; Francis Turatello, figlio naturale di Frank Coppola, collegato alla stessa banda».
Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah… Non lo so
Come noto, poi, arriverà un contrordine e Cornacchia si spinge a scrivere che «la malavita, dunque aveva avuto il compito di eseguire quella sentenza (conseguenza della linea della fermezza ndr), di gestire, cioè, il piano d’azione così come mutato e programmato».
Cornacchia conferma, poi, autorevolmente che sul teatro romano si mosse anche l’organizzazione supersegreta, detta Noto Servizio, o Anello, di cui verrà scoperta l’esistenza solo nel 1996.
«C’è una organizzazione segreta e clandestina italiana – si legge nel libro Airone 1 – composta da ex-ufficiali della RSI, ex-ufficiali badogliani, imprenditori, industriali, soggetto del mondo politico ed economico, della malavita e della criminalità comune organizzata che funge da collegamento tra gerarchie politiche e civili, e tra gerarchie militari e servizi segreti, usata in funzione anticomunista».
A capo dell’Anello, nel 1978, c’era Adalberto Titta, che a detta di Michele Ristuccia, altro esponente dell’organizzazione, «è a conoscenza del luogo ove Moro è detenuto per essere riuscito ad avere contatti con esponenti delle BR»; ma anche lui, secondo Cornacchia, «viene fortemente ostacolato dal potere politico da cui dipende, e cioè dalla Presidenza del Consiglio», leggi Andreotti.
Altro esponente dell’Anello che si diede da fare per liberare Moro fu il francescano Padre Enrico Zucca, che era balzato agli onori della cronaca, nel maggio 1946, per aver nascosto a Milano, la salma di Mussolini, trafugata da un gruppo di neofascisti.
Cornacchia racconta di un suo viaggio, la sera del 6 maggio 1978, in compagnia di Padre Zucca e dell’ispettore dei cappellani delle carceri italiane dell’epoca, don Cesare Curioni, con destinazione la sede estiva pontificia di Castel Gandolfo: «Alle 7.30 del 6 sera (…) vedo il segretario del Papa rispondere al telefono, convinto, forse, sia il segnale per la conclusione delle trattative e la consegna del cofanetto pieno di soldi, ma quando depone la cornetta, pallido in volto, ci informa che “Tutto è andato a monte“. Le parole di circostanza non servono a sapere niente di più, ma non è questo il problema, il dramma è che anche a Sua Santità viene preclusa la possibilità di liberare Moro».
Ancora più enigmatica è la dichiarazione all’Ansa, riportata da Cornacchia, di un altro personaggio di rilievo dell’Anello, il professor Petroni: «Eravamo pronti a liberare Moro senza problemi. La politica ci ha sbarrato la strada affinché non intervenissimo. C’era l’ordine superiore di non intervenire. Moro, d’altra parte se l’è proprio cercata. Nel ’62 a Napoli vara il centro-sinistra per isolare i comunisti e nel ’78 li porta al governo. Un dato è certo: alle cancellerie internazionali Moro non piaceva per nulla. Kissinger non lo poteva vedere. Aveva espressioni durissime per Moro, il quale dava fastidio in Italia, ma anche all’estero. Si scelse di non intervenire, lasciando le cose al loro destino. Lasciando che Moro venisse ucciso. Chi fa fuori Moro? Le BR? Mah… Non lo so».
E dire che c’è chi sostiene che la nuova Commissione d’Inchiesta sul caso Moro sia solo una perdita di tempo, perché è tutto chiaro, nessun mistero.