La bella mappa interattiva prodotta da Eurostat sulle scelte dei giovani europei ha dato modo a tutti, tra sabato e domenica, di titolare sugli “italiani mammoni” che restano a casa fino ai 30, ai 35, mentre danesi e olandesi a vent’anni sono già per conto loro, e il sottotesto moralista – bamboccioni, sfigati – è così evidente che ci si chiede: da dove viene questa vena di rancore contro i giovani? Perché da anni li raccontiamo come piccoli mangiapane a ufo, e ci compiacciamo di ogni statistica che conferma lo stereotipo dei ragazzi nullafacenti, pigri, Neet (né a scuola né al lavoro)? Ma soprattutto: lo stereotipo è vero?
Guardando l’analisi dell’istituto di statistica europea si scopre che il grande spartiacque del “mammonismo” è stato l’anno 2009: fino a quella data più o meno in tutte le fasce d’età, la tendenza c’era ma era contenuta a una decina di punti in più rispetto alla media continentale: si restava a casa qualche anno più degli altri ed era immaginabile lo si facesse per cultura, abitudine, comodità. Dopo il 2009 l’indice di mammonismo comincia a galoppare. Oggi, su cento giovani tra i 18 e i 35 anni, 64 vivono ancora con i genitori. Nella fascia d’età tra i 20 e i 24 la percentuale sale addirittura a 93, contro uno standard dell’area euro comunque molto alto: 76 su 100. Andava assai meglio nel 2006, e la progressione geometrica negli anni della crisi conferma meglio di ogni ragionamento come questa renitenza all’indipendenza, alla vita da soli, non sia più scelta culturale ma stato di necessità tantoché la convivenza con le famiglie d’origine assume più l’aspetto delle kommunalki sovietiche – coabitazione forzata – che quello soffice del familismo vecchia maniera. Ci si ammucchia con papà, mamma, nonna e fratelli per dividere spese, ammortizzare lavori a intermittenza, massimalizzare l’utilità di una pensione.
La renitenza all’indipendenza, alla vita da soli non è più scelta culturale ma stato di necessità. Ci si ammucchia con papà, mamma, nonna e fratelli per dividere spese, ammortizzare lavori a intermittenza, massimalizzare l’utilità di una pensione
Ma gli anni della crisi, quelli tra il 2009 e il 2011, sono anche il crinale in cui l’invettiva pubblica contro il preteso fancazzismo dei giovani diventa dato politico, con una sequela di pubbliche dichiarazioni che trasformano le difficoltà di milioni di ragazzi in colpa grave. Le intemerate di Michel Martone contro gli «sfigati» non ancora laureati a 28 anni, John Elkann che irride i ragazzi «senza ambizione» giurando che «il lavoro c’è ma i giovani non sono abbastanza determinati da cercarlo», il «choosy» di Elsa Fornero contro chi, dice, è troppo schizzinoso per darsi da fare. Brunetta che ipotizza una legge per obbligare i figli a lasciare la casa di papà a 18 anni. E poi, nella fase successiva, l’elogio di chi espatria, va altrove, scappa, e la critica a chi parla di fuga da un Paese impossibile poiché, par di capire, andarsene a fare i camerieri a Berlino e a Londra è l’ovvio portato della modernità e come dice Matteo Renzi «bisogna smetterla con la retorica della fuga di cervelli».
Il combinato disposto di tutte queste cose disegna il quadro di una silenziosa lotta di classe, dove le élite che ce l’hanno fatta, gli adulti e gli anziani ben piazzati in politica, nei media, nell’impresa, nei cda pubblici e privati, spesso settantenni o addirittura ottuagenari oppure giovani adulti arrivati in cima alla vetta, usano le statistiche per avvalorare l’idea che la loro generazione sia l’ultima ad avere avuto un’etica del lavoro e dell’indipendenza e perciò meriti quel che ha, all’infinito, mentre la famosa fascia 18-35 è sfaticata, nullafacente, pigra. Non ha voglia. Non sa sacrificarsi. Quindi non merita attenzione più di tanto, non produce redditi sufficienti, consuma poco, non compra né affitta case, e inoltre poiché lavora poco, male, a intermittenza, non si iscrive al sindacato, ne’ alle camere di commercio, ne’ alle associazioni di categoria, e spesso manco vota. Insomma: i pochi soldi che ci sono meglio darli ai padri e ai nonni, che poi ci penseranno loro a girargli la mancetta per le sigarette o l’aperitivo in centro. Il bollino “bamboccioni” serve appunto a questo, a qualificare gli under-35 come cittadini di serie B e a dimenticarsene, una cosa che oggi si può fare facilmente perchè – oltre al resto – i giovani non costituiscono più neanche emergenza di ordine pubblico, che grazie al cielo si sfogano su Facebook anziché tirando molotov.