TaccolaMps, l’attesa per il referendum può ucciderla, ma Passera torna in gioco

Da martedì 18 ottobre è ufficialmente tornata in campo la proposta di Passera per Mps. I cui vertici non lasciano però che la cordata dell’ex ministro faccia la due diligence. È uno stallo che potrebbe durare fino a dopo il referendum. Ma se vincesse il No anche l’alternativa potrebbe sfumare

Da quando il piano di Corrado Passera per Mps è tornato in gioco, il titolo della banca senese ha segnato rialzi che non si vedevano da tempo: +13% martedì 18 e +7% mercoledì 19. Aumenti che vogliono dire poco se si guarda al valore assoluto del titolo, appena sotto i 21 centesimi. Ma se si pensa che dalla fine di luglio, con la presentazione del piano industriale dell’allora amministratore delegato Fabrizio Viola, le azioni erano scese del 40%, è un segnale che il mercato sta mostrando interesse. Da martedì sera, al termine di un cda di otto ore, anche i vertici di Mps hanno deciso che non si poteva ignorare il famoso “secondo forno”, quello che inizialmente fu messo da parte a favore del primo, targato Jp Morgan. La giravolta del cda è stata parziale. Si va avanti con il piano industriale del nuovo ad Marco Morelli, atteso per il prossimo 24 ottobre, e con il programma di aumento di capitale da 5 miliardi sponsorizzato dalla banca americana. Il governo, primo azionista, ha dato in tempi non sospetti la sua benedizione. Ma appare evidente che l’aumento da 5 miliardi non riesce a superare le difficoltà che ha incontrato fin da agosto.

Mps, arrivata a capitalizzare 500 milioni, chiede 5 miliardi. Troppi se si pensa, come ha sottolineato Massimo Mucchetti sul Fatto Quotidiano, che la ben più sana Ubi vale attualmente 2 miliardi. L’ipotesi di conversione volontaria – ma nei fatti resa obbligata dallo spettro del bail-in – delle obbligazioni subordinate in azioni per 2 miliardi, trova opposizione nei fondi, che in questi giorni stanno trattando sulle condizioni della conversione dei bond. Oltre che nei piccoli obbligazionisti che eventualmente fossero chiamati a versa il sangue. È da questo clima di incertezza che il piano dell’ex ministro dello Sviluppo economico e ex ad di Intesa Sanpaolo ha ritrovato lo slancio, non fosse altro perché non tira in mezzo gli obbligazionisti.

Lo prevedeva nel primo progetto, quello che vedeva coinvolta la banca svizzera Ubs. Ora non più: si parla di un aumento limitato a 3,5 miliardi di euro – una cifra che, d’altra parte è vicina a quella indicata da tempo dal finanziere Davide Serra, molto vicino a Renzi. Di questi, 2,5 arriverebbero da alcuni fondi, di cui è ignota l’identità, se non quella del fondo statunitense Atlas guidato da Bob Diamond, ex capo di Barclays. Un altro miliardo, ha scritto Il Sole 24 Ore, sarebbe previsto come aumento in opzione ai soci attuali.

L’aumento di capitale nel piano di Jp Morgan e di 5 miliardi, di cui 2 da conversione di bond. Quello di Passera si ferma a 3,5 miliardi, senza conversioni. Sulla base di cosa poggia questa differenza? Di un piano industriale evidentemente diverso da quello che sta mettendo a punto Morelli. Ma nessuno lo conosce

La prima grande differenza sarebbe quindi la riduzione di un miliardo e mezzo nelle richieste agli azionisti. Sulla base di cosa? Di un piano industriale evidentemente diverso da quello che sta mettendo a punto Morelli. Nessuno lo conosce, per ora, ma Passera ha più volte confermato che lo presenterà qualora arrivasse la manifestazione d’interesse da parte della banca a conoscerne i dettagli. Se si ricalcasse lo schema del primo piano, il gap potrebbe essere colmato dalla destinazione a riserva dell’intero risultato d’esercizio 2017. Tra gli analisti c’è chi immagina che non preveda un azzeramento delle sofferenze ma di portarle a un livello fisiologico, attorno al 4-5%; anche se le anticipazioni parlano addirittura di una cifra pari non a 27,7 ma a 32 miliardi di euro da ripulire. Di certo c’è che il piano si basa su dati disponibili al pubblico e non su analisi di dettaglio, perché la cordata Passera non ha ancora avuto accesso alla data room di Montepaschi e nessuna due diligence è stata sinora concessa.

La seconda, grossa, differenza è che sarebbe prevista una bad bank alternativa alla cartolarizzazione con Atlante. Se la banca punta a gestire tutto da sé, ci sarebbe il vantaggio di eliminare commissioni che valgono circa centinaia di milioni di euro (il dettaglio lo ha dato ancora una volta Massimo Mucchetti lo scorso 3 ottobre). C’è poi un terzo punto che l’ex ministro vorrebbe giocarsi: la governance, ossia la credibilità personale e della squadra che intende portarsi. Uno dei punti deboli del piano di Jp Morgan, è il ragionamento, è che il primario interesse di Jp Morgan non sarebbe quello di gestire la banca, ma di massimizzare la partita degli Npl. Passera, esaurita la sua avventura politica, si candida invece al vertice della banca. Non per la poltrona di amministratore delegato (a differenza di quanto sarebbe accaduto nei mesi passati, con ad Viola), raccontano fonti qualificate, ma per quella di presidente, presumibilmente con molte deleghe. Fa notare più di un osservatore che un suo ingresso, accompagnato da fondi americani estranei al governo (e alle logiche di una JP Morgan attiva su altri fronti in Italia), sarebbe ben più di rottura di uno segnato dalla gestione di Morelli spalleggiato da Pier Carlo Padoan. Significherebbe in altri termini far uscire qualche scheletro in più dai caveau dell’istituto di Rocca Salimbeni.

Passera, esaurita di fatto la sua avventura politica, si candida al vertice della banca. Non per la poltrona di amministratore delegato ma per quella di presidente, presumibilmente con molte deleghe

La situazione, attualmente, è quindi di stallo. Per ora non è ancora stata convocata l’assemblea di Mps, attesa per il 24 o 25 novembre, mentre la finestra dell’eventuale conversione dei bond si aprirà il 28 novembre (fonte Sole 24 Ore). Mentre l’avvio dell’aumento di capitale è atteso per il 12 dicembre, dopo il referendum. Nel frattempo, il piano di Passera rimane congelato e tale rimarrà se alla sua cordata non sarà dato accesso ai numeri della banca e, di conseguenza, il suo piano industriale rimane aleatorio. È qualcosa di non certo insuale con un’altra offerta in corso, ma le circostanze non sono ordinarie. Si ha quasi l’impressione che la melina possa durare fino al 5 dicembre. E che solo in caso di un No al referendum possano aprirsi le porte all’ex ad di Intesa. Potrebbe essere troppo tardi, però. Gli investitori sono oggi alla finestra. Il giorno dopo un voto che potrebbe destabilizzare governo e portare all’abbassamento dei giudizi delle agenzie di rating sul Paese, potrebbero essere scappati. A quel punto, non aver considerato seriamente l’unica alternativa in campo potrebbe essere solo un rimpianto.

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