Se una mattina fredda di trentacinque anni fa un tumore al colon non l’avesse accompagnato a chiacchierare con il creatore, ora Georges Brassens di anni ne avrebbe 95. Aveva sessantanni e otto giorni, ma negli ultimi anni della sua vita ne dimostrava almeno quindici di più. Forse è per questo che, ai nostri occhi del 2016, quel signore elegante con i baffi e la pipa che suonava la chitarra acustica tenendola ferma come un fucile e che, muovendo le dita sulle corde, faceva ballare gli occhi in modo curioso e leggermente strabico per la concentrazione, ci fa pensare a un vecchietto pittoresco relegato a un tempo che non tornerà mai più.
Eppure, considerare Georges Brassens e le sue canzoni della chincaglieria dei tempi andati è un peccato che non ci possiamo e non ci dobbiamo permettere. Prima di tutto perché Brassens non è affatto un vecchietto tranquillizzante e quieto, è tutto il contrario.
Georges Brassens da Sêtes, già alla sua epoca, era avanti di un chilometro rispetto a tutti. Sia rispetto a quei bigotti borghesi e benpensanti che prendeva in giro nelle sue canzoni e che, per risposta, vietavano ai propri figli di ascoltarlo, sia rispetto ai compagni comunisti ma moralisti fino al midollo, sia rispetto a quei sessantottardi figli di papà che predicavano la libertà di fare quel che pareva loro e che, appena ne hanno avuto la possibilità, hanno fatto esattamente l’opposto diventando peggio di quelli che dicevano di voler rottamare.
Brassens era anche avanti rispetto ai suoi amici anarchici, a cui si avvicinò negli anni del dopoguerra e da cui a un certo punto si allontanò, perché, come disse una volta «ognuno aveva un’idea personale di cosa fosse. È proprio questa la cosa esaltante dell’anarchia: che non è un dogma. È una morale, una maniera di vedere le cose…». Era persino avanti, di circa sette anni, rispetto alle femministe, spesso incapaci di accettare le contraddizioni di un uomo che amava e rispettava a tal punto le donne da scrivere, una canzone come Embrasse-les tous.
Era il 1960, le donne in Europa erano ancora assoggettate al potere maschile — il Movimento per la liberazione delle donne in Francia nacque intorno al 1967 — e per le strade di Parigi camminare da sole voleva dire attrarre sguardi di condanna, se non peggio. Era il 1960, e con quella canzone, il cui titolo in italiano suonerebbe Baciali tutti, Brassens getta una bomba a mano nel corridoio del conservatorismo borghese francese.
Ma non solo è avanti ai bigotti dell’epoca, è, ancora una volta, per quello che canta è quello che il novantanove per cento degli uomini contemporanei sono incapaci di fare, avanti rispetto a tutti noi: accettare la parità, quella vera, invitare le donne a vivere la propria sessualità in assoluta libertà.
Brassens è stato libero di essere se stesso in ogni aspetto della sua vita, lontano dall’egocentrismo che oggi ci divora, privo di velleità rivoluzionarie da primo della classe che si riempie la bocca di belle parole. Eppure, dietro quei baffi, quegli occhi leggermente strabici e quella pipa, c’era dinamite. Dinamite pura, la cui potenza non era affatto ideologica. Brassens infatti rifuggiva la politica. l’impegno in società, persino la fama non gli importava minimamente, come canta in Les trompettes de la rénnommé. Non gli importava di fare bei discorsi e di mettersi dietro una cattedra a insegnare alla gente come doveva vivere. Semplicemente, lo faceva.
Il suo amore per le donne è probabilmente il fulcro della sua opera. E non a caso fu proprio una donna a cambiargli per sempre la vita e a permettergli di diventare quello che è stato. Fuggito dal campo di lavoro in Germania, durante la guerra, il poco più che ventenne Georges fu ospitato da una donna incredibile e da suo marito. Si chiamava Jeanne, aveva trent’anni più di lui e non troppi denti in bocca. Eppure fu la sua amante, la sua confidente, gli cambiò letteralmente la vita. Perché gli diede una cosa che quel bel ragazzo che prima della guerra amava andare in giro a torso nudo e che scriveva poesie alle ragazze della spiaggia di Sêtes non aveva ancora conosciuto: un’umanità gratuita, la potenza di un affetto vero e incondizionato.
Nella Chanson pour l’Auvergnat, dedicata proprio a Jeanne e al suo primo marito, Brassens lo mette nero su bianco: «È per te questa canzone, per te, che mi hai accolto senza pretese, che mi hai dato quattro pezzi di pane quando nella mia vita avevo fame. È per te, che mi hai aperto la porta quando le arricchite, gli arricchiti e tutta le gente piena di buone intenzioni si divertivano a vedermi a bocca asciutta… Non era niente di più di un po’ di pane, ma mi ha scaldato il cuore. E dentro la mia anima brucia ancora, come se fosse una grande abbuffata…». C’è più cristianesimo in queste parole, scritte da un giovane libertario coi baffi, anticlericale e antidogmatico, che nei discorsi di tutti i vescovi degli ultimi mille anni.
“Brassens è una persona contraddittoria proprio perché è un essere umano alla massima potenza. Perché è libero, perché ha sempre cercato di esserlo”, racconta di lui Clementine Derouille, curatrice delle mostre parigine dedicate a lui nel trentennale della morte. Una contraddizione libera che non è affatto ipocrisia, ma che il suo esatto opposto. È il sintomo di una aderenza totale a se stesso. Per questo non aveva bisogno di fare dei bei discorsi. Gli bastava cantare, dimostrare sul palco che canzoni apparentemente machiste come Fernande possono tranquillamente convivere con canzoni totalmente al loro opposto come Quatre-vingt-quinze pour cent.
Questa volta era il 1972, le due canzoni uscirono nello stesso album. «Quando penso a Fernande ce l’ho duro. Anche quando penso a Félicie ce l’ho duro e ce l’ho duro anche quando penso a Léonor», canta nella prima ridendo e parlando di donne e di seghe. Roba da far saltare i cappelli non solo i bigotti, ma anche auna buona parte dei sessantottardi, dei maoisti e degli intellettuali che all’epoca si proclamavano engagé. Roba che avrà fatto incazzare anche le femministe dell’epoca, salvo però spiazzarle con la canzone seguente.
«Il novantacinque per cento delle volte la donna si annoia a scopare. Che lo taccia o che lo confessi non succede mica tutti i giorni che le facciamo ridere le chiappe. E i poveri idioti che sono convinti del contrario sono dei cornuti. […] Gli “ancora”, i “mi piace”, i “continua” che lei urla per fare finta che stia salendo oltre le nuvole è solo carità. I sopsiri degli angeli non sono, in generale, che delle pie menzogne. Servono soltanto a far credere al suo partner di essere un amante straordinario, per far sì che il galletto imbecille e pretenzioso che le si agita sopra non resti deluso». Palla da una parte, femministe dall’altra. E lui che se ne va senza nemmeno prendersi gli applausi dello stadio.
Era il 1972. E mentre la gente ben intenzionata faceva finta di cambiare il mondo a grandi discorsi, Brassens se ne stava coi i suoi amici e o con l’amore della sua vita, Puppchen, di dieci anni più vecchia di lui, conosciuta dopo la guerra in una metro di Parigi. Una donna speciale, l’unica per cui si sia mai veramente levato il cappello, una donna che amava, a cui dedicò la famosa Non-demande de marriage.
I due non si sposarono mai. Lui non avrebbe mai accettato di rinchiudere quel sentimento dentro la gabbia del matrimonio, inventata da un paio di preti e benedetta da bigotti borghesi e benpensanti. Si incontrarono per tutta la vita un paio di volte alla settimana, passavano i weekend insieme con la banda di amici con cui Brassens condivideva tutto e per i quali ha sempre fatto di tutto ciò che poteva, condividendo i soldi del suo successo, la sua casa, il suo vino e il suo cibo, per fare in modo che non mancasse loro mai nulla. Per dare quello che aveva ricevuto da Jeanne, quella fiammella che non smise mai di scaldargli il cuore.
Ed è per questo che a distanza di trentacinque anni ci facciamo soltanto un favore a continuare ad ascoltare quel vecchietto coi baffi e la chitarra suonata alta al modo di una volta. Perché quel nonnino è chilometri più avanti di noi. Perché ascoltare i suoi testi è frequentare un corso di vita da autodidatti.
Perché dietro quei baffi c’era tanta di quella libertà che ce n’è da imparare per tutti noi, che ci sentiamo bravi e fieri di noi stessi, indivanati col culo al caldo e gli occhi perennemente su uno schermo. Perché Brassens è la migliore cura contro quella droga che ci sta distruggendo la vita, quella finta socievolezza asociale, di posa, quel sentirsi al centro del mondo e primi in ogni classe, ma che è soltanto una bugia che diciamo a noi stessi per nasconderci che non siamo affatto quello che pretendiamo di essere.