“Volete che l’Unione Europea obblighi l’Ungheria a ospitare cittadini non ungheresi anche senza l’approvazione delle Nazioni Unite?” Domenica 8 milioni di ungheresi si troveranno davanti a questa domanda. Poco più di un anno fa, i media raccontavano del dramma dei profughi stipati alla stazione dei treni di Budapest-Keleti, dove centinaia di volontari erano accorsi per prendersi cura di donne, anziani e bambini. Erano i giorni degli annunci sulla politica “delle porte aperte” di Angela Merkel e poi quelli della marea di persone che da Budapest si erano messe in viaggio, a piedi, verso l’Austria.
Poi è intervenuta la politica del pungo duro di Viktor Orbàn, le leggi anti-immigrati, la costruzione delle recinzioni attorno ai confini esterni ungheresi e il braccio di ferro con Bruxelles sulle quote di ridistribuzione dei rifugiati. Quote, che in teoria, avrebbero dovuto aiutare Budapest a veder scendere il numero di rifugiati da ospitare, considerato che insieme a Italia e Grecia è stata proprio l’Ungheria a dover far fronte a un flusso di arrivi senza precedenti. Il Governo di Orbàn, dopo mesi di negoziati, ha però optato per schierarsi con la posizione del Gruppo Visegrad: «No alle quote e no alla politica di accoglienza per i rifugiati». Una linea, che peraltro subisce le prime crepe proprio in questi giorni.
«Il referendum del 2 ottobre non è sull’appartenenza all’Ue – si legge sul sito del Governo di Budapest – Quello lo abbiamo già tenuto nel 2003 ed è stato a favore, sostenuto anche dal partito al governo Fidesz. Quello di domenica è un referendum per impedire a Bruxelles di procedere con l’implementazione di un sistema di quote obbligatorio e permanente. Non vogliamo che l’Ue prenda decisioni in una materia che non le compete. La politica sull’immigrazione è materia di competenza nazionale».
Una vittoria scontata quella di Fidesz, che davanti a sé trova la strada completamente libera. Nessuna opposizione, nessun comitato per il Si. «Ovunque si va in Ungheria – racconta a Linkiesta.it Andrea Hajagos, corrispondente da Budapest per Euronews – Si leggono cartelloni che invitano a votare il No. Su molti c’è scritto “Non rischiare, vota No”. Il Governo ha speso miliardi in volantini. In molti casi si è ricorsi al sentimento della paura. Su alcuni ad esempio c’è scritto: “Lo sapevi? Dietro agli attacchi di Parigi c’erano migranti”».
L’unico partito a favore del Si è quello Liberale ungherese, che però conta appena un deputato sui 200 che oggi siedono in Parlamento, mentre l’unica campagna contro il No e a favore dell’astensione è stata promossa dal partito satirico “Il cane a due code”, grazie ai fondi raccolti on line. «In totale contano su pochi milioni di fiorini – spiega ancora Andrea, – I suoi sostenitori puntano per lo più sull’ironia. In alcuni manifesti affissi per le strade di Budapest si legge ad esempio: “Lo sapete che un ungherese medio vede nella vita più Ufo che migranti?”. Alla base della campagna c’è il desiderio di invalidare il voto, impedendo il raggiungimento del quorum».
I problemi per l’opposizione nascono soprattutto dalla frammentazione dei partiti di sinistra. Chi vota a sinistra non condivide le scelte di Orbàn, ma sull’immigrazione ha idee controverse e spesso non così lontane da quelle del Governo. Ecco perché si preferisce spingere sull’astensione che su campagne a favore del Si, con il risultato che a differenza di quanto accada in altri Paesi normalmente in Ungheria non sono stati creati comitati referendari a sostegno dell’una o dell’altra parte.
L’unico partito a favore del Si è quello liberale, che però conta appena un deputato sui 200, mentre l’unica campagna contro il No e a favore dell’astensione è stata promossa dal partito satirico “Il cane a due code”, grazie ai fondi raccolti on line: “Lo sapete che un ungherese medio vede nella vita più Ufo che migranti?”, si legge sui loro manifesti
A rafforzare le possibilità di vittoria del No. anche l’appoggio dell’estrema destra di Jobbik, che in Ungheria da anni vede aumentare il numero dei propri elettori. I numeri, però, mostrano un quadro diverso da quello raccontato e descritto dai giornali e le tv di stato. Se Orbàn si è detto «contento di vincere il referendum di domenica con il 100% dei voti» i sondaggi danno il livello di partecipazione al voto tra il 42 e il 55%. L’astensione e il mancato quorum restano di fatto un’opzione.
Del resto anche i numeri dei migranti e rifugiati presenti realmente nel Paese raccontano una realtà diversa di quella presentata dal Governo. I richiedenti asilo oggi ospiti in Ungheria sono 639, mentre le domande ricevute ammontano in totale a 26 mila. Tutte risalenti allo scorso anno. Sul sito del Governo si legge che “L’esecutivo ungherese a differenza di altri Paesi europei non è interessato ad aumentare il numero dei propri cittadini per poter usufruire di manodopera a basso costo o per riequilibrare deficit demografici”. Una posizione chiara che «oggi in Ungheria condivide la maggior parte dei cittadini – spiega ancora Andrea Hajagos -. Quello di domenica è percepito da molti come un referendum dalle implicazioni politiche molto più ampie. Si tratta di un voto che darà inevitabilmente segnali all’estero, ma anche all’interno. Le prossime elezioni politiche si tengono tra un anno e mezzo. Per Orbàn, che su questo voto ci ha messo la faccia, significa assicurarsi la forza necessaria per affrontarle. Il Premier vuole riprendersi i voti finiti a Jobbik, che resta comunque il secondo partito».
In uno scenario politico come quello ungherese, dove la sinistra è divisa o assente, i liberali contano su zero potere parlamentare e la scena è divisa tra Fidesz e Jobbik. Viktor Orbàn appare al cittadino medio come “il politico moderato” da preferire all’ironia senza costruzione de “Il Cane a due code” e l’estrema destra, spesso dai toni violenti, di Jobbik. Ancora una volta come nel caso greco e britannico, un referendum su temi europei, con conseguenze anche per gli altri 492 milioni di cittadini non ungheresi, è stato indetto per confermare e rafforzare giochi di potere interno.