Sul numero di ottobre di Playboy America, il settimo dall’inaugurazione della nuova linea editoriale “senza nudi, al massimo nudi soft”, c’è una splendida ragazza velata e vestita dalla testa ai piedi. Si chiama Noor Tagouri, ha 22 anni, è americana, ha origini libiche, fa la giornalista radio-televisiva e la blogger. Ha più di 100mila follower tra Twitter e Instagram, ma non è per questo che Playboy l’ha inserita nella sezione “Renegade”, dedicata ai personaggi più influenti del momento, insieme a Ali Wong (comica di origini asiatiche che sale sul palco col pancione e dice cose come “maledette femministe, per colpa vostra ci tocca lavorare, stavamo meglio quando fingevamo di essere stupide” e “invidio alle casalinghe di poter usare la carta igienica vera e non quella schifezza che si trova nei bagni degli uffici e che disidrata il culo”) e la serbo-americana Stoya, attrice e attivista che secondo Playboy è “la leader di cui il porno ha bisogno ora“. Tre donne, si legge sulla rivista, che “rischiano la vita per fare ciò che amano e ci mostrano cosa si riesce a fare rompendo le regole”.
“Combatto affinché la mia comunità venga raccontata meglio”, ha scritto, dichiarato, ripetuto Noor da quando ha cominciato a mostrarsi in hijab sui media americani, intenzionata non solo a rivendicarlo come simbolo scelto e non imposto, ma pure a sottolinearne la malia, il fascino, il mistero. Molte donne, sia musulmane che no, com’era prevedibile, le hanno contestato di essersi svenduta a una rivista che “perpetra la reificazione femminile”. Voci meno numerose, ma altrettanto manichee, sono insorte nel ricordare che il velo sul volto di una donna resterà l’epitome della barbarie fondamentalista, non importa quante copertine patinate, paillettes, sfilate d’haute couture si guadagnerà.
La notizia e il conseguente sciame di polemiche che ha innescato, sono rimbalzati in tutto il mondo la scorsa settimana. L’Italia, la Francia e diversi altri paesi europei, dove la discussione sul burkini (il bikini-burqa che il premier francese, Manuel Valls ha accusato di attentare ai principi repubblicani, democratici, liberali), non molte settimane fa, sembrava avrebbe arroventato l’opinione pubblica a tempo indeterminato, sono rimasti incredibilmente tiepidi.
Le Figaro denunciava, due settimane fa (l’articolo è stato ripreso da Il Foglio di ieri), che “tra la violenza contro le donne e la paura di essere tacciati di islamofobia, le muse del neo-femminismo non esitano un istante: sacrificano le donne“, riferendosi alle banlieu, “i territori perduti della Repubblica”, dove le musulmane vivono completamente assoggettate al dominio maschile. In Italia, perfino il fronte del “no” alla proposta di divieto del burkini avanzata da Valls, incubava, in fondo, l’idea che il velo è oscurantismo, ma che tuttavia l’oscurantismo si può scegliere. Il pensiero occidentale sulla femminilità musulmana è ancora immaturo (o, semplicemente, spaventato e, quindi, bloccato tanto dallo spettro dell’islamofobia quanto della sua ideologizzazione speculare) per accogliere l’idea che l’emancipazione delle donne islamiche non debba passare soltanto attraverso la liberazione dal velo o dalla sua scelta libera e consapevole, bensì, soprattutto, smettendo di far risalire le sue origini alla misoginia e sottolineandone la potente sensualità, una sensualità diversa da quella corrente e, usiamo una parola terrificante, “mainstream”.
L’emancipazione femminile occidentale ha prodotto un modello unico dal quale ora le donne cominciano a volersi differenziare
Quello che Playboy ha consentito di fare a Noor sulle sue pagine – intenzionalmente o meno, maliziosamente o meno: chissenefrega – è dimostrare che il velo è sexy. Ed è una rivoluzione di costume, un’effrazione dei canoni, assai più interessante di quella con cui, da anni, campagne progresso più o meno probabili tentano di far credere che se le passerelle diventassero a prova di taglie morbide, scomparirebbero i disturbi alimentari e a tutte le donne spetterebbero eguali quote di felicità e realizzazione.
“Ho voluto dimostrare che il successo si può ottenere anche al di fuori del progetto che la società ci riserva”, ha detto Noor ad Allure, rivista statunitense à la page, volendoci condurre a interrogarci, noi che la guardiamo dalle scrivanie, se davvero abbiamo guadagnato la migliore delle libertà possibili e se non abbiamo trasformato quella libertà in un diktat.
Lo ha capito persino Playboy che l’emancipazione femminile occidentale ha prodotto un modello unico dal quale le donne cominciano a volersi differenziare al punto che le aprifila del nuovo cammino si candidano a essere una giornalista che rivendica il suo sex appeal indossando un velo e una asiatica famosa, ricca, autonoma si augura un uomo capace di zittirla, prendere il comando e mantenerla, mica una candidata alla presidenza degli Stati Uniti.
“Una cosa che stupisce, sulle prime, è la loro maniera di guardare e di ridere, che scuserebbe qualsiasi giudizio più temerario. Accade spessissimo che un giovane europeo, guardando fisso una donna turca, anche di alto bordo, sia ricambiato con uno sguardo sorridente o con un sorriso aperto”, scriveva Edmondo De Amicis, nel suo “Costantinopoli”. Era il 1877.