Per tutti quelli che lo hanno studiato su banchi di scuola, Eugenio Montale è un gran noiosone, allegro come un rivo strozzato che gorgoglia, vitale come un incartocciarsi della foglia riarsa, e preso bene come un cavallo stramazzato.
È il suo male di vivere, non lo ha mai nascosto e lo hanno incontrato tutti, reso ancor più tragico e tantalico da professoresse democratiche che sdilinquivano di fronte a quello spleen, ma che non si rendevano conto che tutta quella malinconia, per la platea di quattordicenni che avevano davanti, era solo una gran rottura di palle. E infatti tutti, indistintamente tutti, al di là che siano poi siano andati ad allenarsi da disoccupati a Lettere Moderne o a formattarsi il cervello a Ingegneria gestionale, si sono tremendamente annoiati.
Ed è un gran peccato, perché Montale non è soltanto quella cosa lì, afosa come un meriggio pallido, secca come l’estate ligure, aspra come quei limoni che dovrebbero sfarci il gelo dal cuore ma che nessuno ha mai visto dietro a introvabili malchiusi portoni, noiosa e terribile come una notte che non annotta in una trincea della Valmorbia.
Per questo, oggi che ricorre l’anniversario della sua nascita, ricordiamoci di quando Montale era un pirla. Sì, anche Montale diceva le parolacce. E Il pirla, à la milanese, è una delle sue poesie più frizzanti. Una di quelle che, se quelle professoresse democratiche l’avessero fatta leggere a quella platea di brufolosi e ormonali quattordicenni, forse avrebbero loro risparmiato molte ore di noia. Il Pirla, è quella la chiave per far innamorare i ragazzi alla poesia di Montale. E fa così:
Prima di chiudere gli occhi mi hai detto pirla
una parola gergale
non traducibile
Da allora
me la porto addosso
come un marchio che resiste alla pomice
Ci sono anche altri pirla nel mondo
ma come riconoscerli?
I pirla non sanno di esserlo
Se pure ne fossero informati
tenterebbero di scollarsi
con le unghie
quello stimma.